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Giudizio Universale. Michelangelo e i segreti della Cappella Sistina

Presentato come uno spettacolo “unico” al mondo – e definito artisticamente e tecnologicamente innovativo, straordinario, dagli stessi autori – Giudizio Universale si è rivelato essere una sorta di giostra disneyana che vuole vendersi come cultura alta per il tramite di Michelangelo e della Cappella Sistina. All’uscita la sensazione è quella di uno stordimento sensoriale che lascia ben poco spazio all’emozione o alla comprensione, esattamente, appunto, come in una giostra. Ma se a Disneyland una giostra ha sempre una precisa identità, facilmente riconoscibile, questo Giudizio Universale non è ben chiaro cosa voglia essere e dove voglia andare a parare. Vorrebbe semplicemente produrre emozioni? Ebbene è proprio qui che fallisce, perché, esattamente come in molto cinema spettacolare contemporaneo, sembra confondere l’emozione con l’eccitazione sensoriale in sé e per sé, quando, invece, l’emozione estetica è – o quantomeno dovrebbe essere – il risultato dell’accordo tra una stimolazione sensoriale, una precisa estetica e la costruzione “narrativa” dell’opera. Qui invece si ha una continuata serie di “scene” che vorrebbero essere “fighe” in quanto tali, non nel loro inserimento in una organica struttura diegetica.

Il problema è che una serie di scene “fighissime”, ma senza un senso unitario che le sorregga e le sostanzi, alla fine neanche diverte, per non dire che – soprattutto, crediamo, ad una eventuale seconda visione – stancano ed annoiano. Infatti, qual è la linea tematica di Giudizio Universale? Non è dato saperlo. Sennonché alcuni papi hanno commissionato la realizzazione degli affreschi della Cappella Sistina a Michelangelo. Ci dice qualcosa di rilevante su Michelangelo e la genesi e la struttura della sua arte? No. Ci rivela un qualche segreto della Cappella Sistina (d’altronde non s’intitola così)? No. Ci offre un modo nuovo per avvicinarsi al Giudizio Universale? No. Si limita soltanto a mostrarcelo in maniera più “figa”. Allo stesso tempo, però, lo spettatore viene investito da una serie di stimoli estetici a volte antitetici. Si passa senza soluzione di continuità dalla performance art, alla computer grafica, al teatro, al musical, all’opera, al cinema, alle proiezioni immersive a 270 gradi, ai giochi di luce, al balletto e così via. Ma di nuovo, quale il filo “drammaturgico” che lega le “scene”? Perché, e per diversi minuti, una voce fuori campo che si sovrappone alla mimica degli attori, spiega in maniera didattica alcuni affreschi della Cappella Sist Ma in fondo, data la natura evidentemente commerciale, turistica, dell’operazione, tutti questi non sarebbero neanche il problema principale, perché anche dal punto di vista strettamente tecnologico emergono alcune criticità, le quali, per uno show venduto come tecnologicamente avanzatissimo e con costi di livello (8-9 milioni di euro), sono ancor più decisive. Innanzitutto bisogna dire che molte delle proiezioni frontali, soprattutto quelle dei dettagli del Giudizio Universale, sono magnifiche. Su questo non c’è dubbio. Nonostante ciò, non sempre la qualità di altre proiezioni appare adeguata, come nel caso delle immagini dello spazio, che in molte occasioni sembrano addirittura in bassa risoluzione. Ed anche alcune soluzioni visive e performative, quand’anche raggiungono il kitsch (come nell’iniziale apparizione del David da un “blocco” illuminato) lasciano effettivamente a bocca aperta.

Le animazioni degli affreschi del Giudizio Universale sono affascinanti e ben fatte, anche perché, e per fortuna, solo accennate. Purtroppo, però, fin da subito si evidenziano alcuni problemi tecnologici. La superficie delle proiezioni laterali non appare proporzionata, dato che ne copre solo la metà alta. All’inizio è mostrata una panoramica/piano sequenza della Roma del 1500 in computer grafica, che parte dal Colosseo per giungere ad una San Pietro in costruzione. Seppur resa con un dettaglio grafico di livello, quello che lascia interdetti è come sia possibile che il movimento, ben lontano da una sperata fluidità, in più di un’occasione arrivi addirittura a scattare. E’ l’elaborazione grafica che non riesce a gestire la complessità della riproduzione, oppure semplicemente la riproduzione video? Poco cambia, perché l’effetto – qualora non sia corretto nelle successive repliche – risulta fastidioso. Ben più gravi invece i problemi delle proiezioni sulle pareti laterali, che spesso (sempre?) sono sfocate. Per uno spettacolo che basa gran parte della sua ragione d’essere sull’eccellenza tecnologica (delle proiezioni, ma non solo), ci è sembrata cosa non del tutto accettabile. Anche dal punto di vista delle scelte artistiche molte cose non ci sono sembrate del tutto convincenti. Ad esempio quella di non far parlare gli attori, che recitano in playback sulla sovrapposizione di una roboante voce fuori campo, che, seppur ottimamente recitata da Pierfrancesco Favino ed altri, per chi scrive rendeva artefatta sia la performance sia la stessa voce fuori campo. La musica di John Metcalfe è spesso tronfia e retorica, e non solo per più di una volta stonava con il presunto contenuto vuoi artistico vuoi spirituale (che di solito. così riteniamo, dovrebbero essere accompagnati per sottrazione, non per excessum) ma anche, come da prassi hollywoodiana, perché cerca sempre di stringere lo spettatore all’assenso emozionale. Può, forse, andar bene per un blockbuster tratto dai fumetti di supereroi, ma per Michelangelo e la Cappella Sistina? E che dire del contributo di Sting? A prescindere dalla qualità pop della stessa, invero mediocre, suscita un po’ di meraviglia l’idea, curiosa, di farla seguire – e non antecedere, come insegna qualsiasi ABC sulle commistioni tra cultura alta e cultura bassa in musica -, al Requiem di Verdi, con l’effetto, ovviamente, di amplificarne ancor di più la qualità nettamente inferiore. Insomma, cosa offre questo spettacolo “unico” al mondo? Una serie di soluzioni visive ed estetiche d’impatto, ma che, una volta terminato il tutto, non lasciano quasi nulla nello spettatore e, più che emozionare, si limitano a stupire e frastornare; esattamente come in una giostra. Spettatore che, come dicevamo in principio, con tutta probabilità non avrà neanche compreso del tutto cos’è andato a vedere, e in particolare gli sfuggirà la connessione tra le varie “scene” e i generi espressivi in cui si incarnano. Anzi, più che di connessione bisognerebbe qui forse parlare d’imbastitura tra le scene, dove la connessione (tematica e non) quando c’è è pur sempre solo abbozzata, sacrificata in nome di una spettacolarità spesso fine a se stessa. Giudizio Universale è certamente un ottimo prodotto commerciale, che sicuramente otterrà un buon successo soprattutto tra i turisti, ma che ben poco condivide con l’arte e la cultura. Con tutta probabilità, pur nella goffaggine di alcuni passaggi e di alcune scelte, qualcosa della bellezza dell’arte e di estetica della raffigurazione passerà; e chi lo sa se magari l’intento non fosse soltanto questo, per così – in un tempo come il nostro, così povero di spirito – giustificare l’operazione con un consolatorio “è già qualcosa”. Quel che ci sembra indubbio, è che se al posto di Michelangelo ci fosse stato un qualsiasi autore di fumetti, e le proiezioni avessero riguardato le sue strisce, la sostanza dello spettacolo probabilmente non sarebbe mutata. Poco importa, perché il problema rimane pur sempre lo stesso, cioè che a livello tecnologico (il livello sostanziale in uno show cosiffatto) questo Giudizio Universale non riesce a convincere del tutto, se non, forse, in una cultura popolare tecnologicamente provinciale come ancora è, purtroppo, quella