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LATHERFACE, GLI ANTEFATTI DI NON APRITE QUELLA PORTA

 

LATHERFACE, GLI ANTEFATTI DI NON APRITE QUELLA PORTA

Nel 1974, appena qualche mese dopo l’uscita di un capolavoro come L’esorcista, un altro film spaventò moltissimo il pubblico di tutto il mondo. È il caso di Non aprite quella porta, diretto da Tobe Hooper, che nonostante i 43 anni trascorsi dalla sua uscita, resta tutt’ora uno tra i racconti dell’orrore più amati e discussi per appassionati ed esperti. Nel 2003, abbiamo visto l’omonimo remake portato al successo da Marcus Mispel; oggi sono due giovani registi come Alexandre Bustillo e Julien Maury a lasciarsi ispirare da questa storia per raccontarci cosa è accaduto negli anni precedenti. La prima sequenza del racconto ci mostra Jed Sawyer nel 1955, un bambino manipolato sin dalla nascita da una madre protettiva e violenta che uccide chiunque si trovi a passare nei loro paraggi. Tra le vittime prescelte c’è la figlia dello sceriffo Hartman, che appresa la notizia del decesso, promette una terribile vendetta contro Jed e la sua famiglia. Il bambino è costretto a restare chiuso in un manicomio minorile, dove nasce un buon rapporto con Lizzy, un’infermiera dal carattere dolce e paziente. Jed cresce, in dieci anni di lavoro terapeutico sembra intenzionato a modificare il suo carattere. Poi, una notte si scatena una rivolta. Nel bel mezzo della confusione solo Jed e altri tre pazienti riescono a scappare. Con loro c’è anche Lizzy, come ostaggio. Le indagini sono affidate ad Harthman ancora pieno di collera per quanto accaduto a sua figlia. lo sceriffo uccide i tre compagni di viaggio in un momento di follia. Jed invece, ritrova la strada di casa aiutato da Lizzy, che non lo abbandona mai. Lì, il ragazzo sarà chiamato a compiere la scelta che segnerà per sempre il suo futuro: eliminarla come vorrebbe sua madre, o seguire i consigli dell’infermiera, che lo incita a scappare di casa definitivamente. Se l’intento di sceneggiatori e registi è quello di raccontare una storia nuova e diversa, allora l’impresa pianificata in partenza non raggiunge i suoi obiettivi. In ogni suo dettaglio (ambientazione, dialoghi e sottofondi musicali) il film contiene tutti gli ingredienti che ben conosciamo per un racconto dell’horror. Non mancano intatti paesaggi dispersi nel verde a sottolineare la difficoltà nel ricevere soccorsi, una colonna sonora inquietante e soprattutto un luogo destinato a essere ribattezzato “la fabbrica della morte”. La fattoria della famiglia Sawyer, in Latherface, non fa eccezione. La madre di Jed, oltre a essere una collezionista di ossa, dà in pasto i corpi delle vittime ai maiali dopo averli fatti a pezzi con la motosega. Un’arma che non è affatto una novità nel genere horror, per il grande e tantomeno per il piccolo schermo. Perfino i bambini, nel videogioco Grand Theft auto, sono abituati a uccidere il nemico utilizzando una motosega. Inoltre, nell’ormai lontano 1994, la divertente scena de Il mostro di Roberto Benigni che in modo goffo ne usa una, è proprio la parodia di un maldestro comportamento criminale. L’unico aspetto che potremmo considerare positivo in Latherface, è una personale riflessione sul senso della morte in quanto fatto. Se in sala avevo considerato esagerata la vendetta dello sceriffo, in un secondo momento non ho fatto fatica a calarmi anche nei panni del personaggio. La quantità di violenza o il numero crescente delle vittime in un fatto di cronaca, non potrà mai contare quanto il dolore di una persona sofferente. E forse sarebbe ora che anche il cinema non continui, come purtroppo accade spesso, a considerare la morte come un fatto banale o persino spettacolare.

 

Eugenio Bonardi