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MONOLITH non convince fino in fondo

La Monolith ha lanciato sul mercato l’automobile più sicura al mondo. Blindatissima. Sandra, ex pop-star di successo, è tra le pochissime ad averne una. Mentre sta andando in macchina con il figlioletto David dalla nonna, ecco che giustificati sospetti sulla fedeltà del marito iniziano a turbarla. Si distrae e arrota un cervo. Nel bel mezzo del deserto…Scende dall’auto e David, rimasto solo in macchina col telefono della madre, attiva involontariamente tutti i sistemi di sicurezza dell’auto, rendendola così impenetrabile. Sandra sarà costretta a lottare così per la propria sopravvivenza e per quella del figlio.

Monolith, di Ivan Salvestrini, è per definizione un B-movie: un ventaglio di attori, basso budget e poche location. Un film che cerca, talvolta riuscendoci, di assumere i connotati di “pellicola di genere”; perché di un classico film di sopravvivenza si tratta. E anche l’espediente della “macchina” non è propriamente una novità. Tante sono infatti le eredità a suo carico all’interno del cinema di genere, da La macchina nera fino a Christine la macchina infernale del maestro Carpenter. Adesso, se è vero che il ritmo si fa, sequenza dopo sequenza, incalzante e teso, è altrettanto vero che i meriti di Monolith vanno via via sbiadendosi a causa di alcuni – a mio avviso innegabili, limiti registici e stilistici. Sullo sfondo desertico della California, dove la contaminazione fra l’elemento futuristico (l’automobile) e il paesaggio selvaggio avrebbe potuto rivelarsi un elemento assai interessante, ecco che una fotografia basica e piatta arriva a minarne le potenzialità. Anche i movimenti di macchina, con la distensione del racconto, si fanno spesso ripetitivi e talvolta poco coerenti, come poco coerente è la scelta delle musiche in relazione ai tanti momenti di drammaticità e di suspense che il film -bisogna riconoscerlo -ha. Ma ci sono almeno altri due aspetti disfunzionali che rendono Monolith un film riuscito a metà: 1) le sequenze dei sogni, assolutamente insignificanti per la ricostruzione dei fatti e per quella psicologica dei personaggi; 2) le sequenze che accompagnano il finale vero e proprio del film, dove si ricerca una spettacolarizzazione inutile attraverso un digitale senza estetica e personalità.

Ma di Monolith non è tutto da buttar via, anzi. E’ un film che riesce in qualche modo a suscitare qualche stimolo alla riflessione. L’incidente, se così possiamo definirlo, può essere visto come una sorta di contrappasso. Una punizione metaforica per i genitori, che troppo spesso, a causa di uno stile di vita eccessivamente frenetico e alienato, si trovano a delegare lo svago dei figli agli apparecchi tecnologici, per loro natura intuitivi e accattivanti. Non solo, ma una serie di sfumature su quanto la tecnologia sia utile e allo stesso tempo pericolosissima per chi ne fa un uso tossico.

Insomma, Monolith è una pellicola che si butta giù, che intrattiene e incuriosisce. Ma di strada per resuscitare il cinema di genere ancora c’è da farne.

Luca Di Dio