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A “Quarto Grado” il cognato di Massimo Bossetti, Agostino Comi: il DNA? Non basta

Gialuigi Nuzzi Quarto Grado
Massimo Bssetti (immagine dal web)

“Quarto Grado” manda in onda, questa sera, un’intervista ad Agostino Comi, cognato di Massimo Bossetti, l’operaio di Mapello condannato in primo grado all’ergastolo per il delitto di Yara Gambirasio. Agostino Comi, conosce Massimo Bossetti da 25 anni, non riesce a credere che si sia macchiato di un simile delitto. Scagli accusse cntro gli inquirenti che, a suo dire, andrebbero solo in una direzione: la colpevolezza di Bossetti. La prova del DNA per Comi non è sufficiente, nemmeno le altre prove rivìnvenute sul furgone. Una macchinazione? A quale scopo? Lo stesso cognto di Bossetti ha dovuto ammettere che non ha saputo rispondere a cosa stesse facendo la sera che la piccola Yara sparì… Può un uomo essere così ambiguo da recitare il ruolo di uomo di famiglia e celare poi perversioni indicibili? Secondo la psichiatra è possibile, solo le perizie potranno spiegare se è il caso di Massimo Bossetti o se invece c’è un errore clamoroso.

L’uomo è il fratello di Marita Comi, moglie di Massimo Bossetti e madre dei suoi tre figli.

Di seguito, alcuni stralci dell’intervista realizzata dall’inviato Giorgio Sturlese Tosi.

Domanda: «Conosci Massimo dall’inizio della storia con tua sorella».

Risposta: «Sì, praticamente da quando ha cominciato a frequentare mia sorella».

D: «Non ha mai avuto segreti?»

R: «No, si confidava parecchie volte con me…

Io l’ho saputo nel pomeriggio, tornando dal lavoro, alla radio, che avevano preso il presunto assassino di Yara».

D: «Poi, per mesi, finché non c’è stata la “discovery” degli atti, sono cominciate a uscire un sacco di notizie contro Massimo…».

R: «Negli interrogatori che mi facevano, io dicevo come conoscevo Massimo, ma loro sembrava volessero che dicessi tutt’altro. Dicevo: “Scusate, ci ho parlato fino a ieri, è una vita che lo conosco, non è come dite voi”».

D: «Tante notizie che poi, in dibattimento, sono state ridimensionate…».

R: «Esatto. Per me son stati colpi bassi, perché anche loro poi si son resi conto che comunque era una famiglia normale. Tutti gli amici raccontavano che è sempre stato normale… non hanno trovato niente a cui appigliarsi, per cui dovevano creare qualcosa per forza… l’unica cosa era quella goccia lì, che assomiglia al suo DNA a quanto mi sembra… perché c’è un sacco di dubbi anche lì…».

D: «Non ti è mai venuta l’ipotesi che potesse davvero lui aver fatto qualcosa del genere? Che avesse indossato con te una maschera per 25 anni?»

R: «Guarda, quando quel venerdì famoso è sparita Yara, la povera Yara, il sabato dopo eravamo a tavolino a parlare del più e del meno. Mi sembra una cosa veramente assurda, ma poi… non lo conosciamo così».

D: «Avete provato a interrogarvi su quali possibilità possano aver provocato il fatto che questo DNA, secondo chi dice sia suo, sia finito lì?»

R: «Chi lo sa. Io so che le persone possono sbagliare… loro non lo ammetteranno mai , perché con tutti quei soldi che hanno speso qualcuno dovevano trovare…».

D: «Un capro espiatorio».

R: «Esatto. Per me non gli interessa se han rovinato altre famiglie: han speso tutti quei soldi lì:  è lui e basta».

D: «Quindi tu eri a Brembate proprio la sera del delitto».

R: «Sì».

D: «A che ora?»

R: «Di solito alle 18/18.30, 19 al massimo».

D: «Hai visto il furgone di tuo cognato?»

R: «No».

D: «Marita ha chiesto – o comunque avete parlato – di dove eravate quella sera, e Massimo non avrebbe ricordato dov’era. Ci racconti quella sera? Quando era, intanto?»

R: «Il giorno preciso non me lo ricordo. Era una classica sera: abbiamo mangiato e poi, dopo il caffè, si parlava del più e del meno, è saltata fuori la storia della povera Yara… e così, parlando, ci siamo domandati “dov’eri te?”. Niente di particolare».

D: «E lì Massimo non avrebbe risposto».

R: «Eh, non si ricordava, come non mi ricordavo neanche io. Al momento non mi ricordavo neanch’io. Quando anche gli inquirenti mi hanno chiesto dov’ero quella sera, ci ho pensato: ma io c’ho le agende e posso andare a vedere».

D: «Ora si apre il processo di appello. Voi cosa chiedete?»

R: «Chiediamo la famosa perizia: quello è il minimo, con tutte le cose che non vanno… a loro non interessa a quanto vedo… con tutto il lavoro che hanno fatto i nostri avvocati, almeno quella… almeno! Perché così vuol dire proprio che c’è sotto qualcosa… perché le vai a pensare tutte! Han paura di far saltar fuori che sia… e chi lo sa? Chi me lo dice che non sia un suo cugino, un suo parente… il DNA può somigliare, no?»

D: «Dovesse essere fatta una perizia, e confermasse che il DNA sugli slip di Yara è proprio di tuo cognato, cambi idea? Ti ricredi?»

R: «Se c’è solo quello, non ci credo. Se mi fanno vedere tutte le altre cose che non sono chiare, ne parliamo. Ma se mi fanno vedere solo quello, non ci credo assolutamente».

D: «Quand’è l’ultima volta che sei andato a trovarlo?»

R: «Ci devo andare a giorni, perché è un po’ che non ci vado. Ho lasciato più spazio ai bambini, a mia sorella, alla mamma. Non sono tante le visite, per cui…».

D: «Come l’hai trovato? A volte è positivo perché riesce a lavorare, ci dicono, altre volte…».

R: «Eh sì, ha degli alti e bassi, quello è normale in quei posti lì».

D: «Cosa gli dici?»

R: «Di tener duro, gli dico, ché la verità deve saltar fuori in un modo o nell’altro. Io, come ho detto, spero il più presto possibile».