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SPIELBERG, UNA VITA PER IL CINEMA

Forse lo sapeva fin da bambino e non avrebbe potuto farci nulla. Che l’avesse voluto o meno, Steven Spielberg era destinato ad essere uno tra i registi più famosi ed eclettici di ogni tempo. Potremmo paragonarlo forse a Mozart; il cineasta statunitense infatti, girò il cortometraggio The last train weck all’età di soli 11 anni, per poi continuare esplorando ogni tipo di genere, dalla paura ad azioni belliche, passando per la fantascienza e le ricostruzioni storiche. A testimoniare la sua grandezza nel film documentario Spielberg, illustri colleghi come George Lucas, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, ma anche grandi attori come Tom Hanks, Leonardo Di Caprio e la sua famiglia. Il tutto, sotto la guida della regista e produttrice Susan Lucy.
Più che un film, Spielberg è a tutti gli effetti un viaggio a tappe, l’una separata dall’altra grazie a una breve dissolvenza. Punto di partenza, il difficile racconto di un’infanzia segnata dalla tristezza e dalla solitudine. Le sequenze del documentario, mostrano un bambino timido senza amici, lo zimbello della scuola, spesso vittima di scherzi; una quotidianità scandita da litigi con genitori sempre arrabbiati e depressi. In uno scenario così teso e cupo, il cinema rappresentava un vero rifugio, un punto di riferimento e l’unica certezza per Steven, grazie all’assidua frequentazione delle sale e degli Universal Studios, in cui si era inizialmente intrufolato in qualità di finto dipendente. Sin da Duel, il primo lungometraggio girato inizialmente come fiction televisiva di un solo episodio, Steven ebbe modo di mostrare le sue qualità. Nonostante l’insistenza dei produttori, il regista non accettò di filmare l’esplosione dell’autocisterna, piuttosto preferì un finale più artistico. La macchina da presa mostra la coppa dell’olio che smette lentamente di gocciolare, ad esprimere la fine di un motore stanco. E questa fu la sua prima sfida vinta. Ne seguiranno poi molte altre, come l’idea di girare una storia scritta in sole 12 ore, Lo squalo (1975). Spielberg ha arricchito inoltre gli orizzonti fantascientifici con due capolavori quali Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), E. T. l’extraterrestre (1982) e l’utilizzo del computer per ricreare i dinosauri in Jurassic Park (1993). Specialmente i primi due ebbero il grande favore del pubblico come film di fantascienza, in realtà c’è molto di più in chiave autobiografica. Incontri ravvicinati del terzo tipo racconta il disagio di una famiglia e di un bambino di fronte al dramma della separazione. Invece E.T. snoda la sua narrazione in un quartiere di periferia, così come è vissuto lo stesso Spielberg.
Parlando di temi autobiografici come non ricordare Schindler’s List, lungometraggio definito dal regista, un’esperienza nuova, di cui ha sentito tutto il peso della responsabilità per il tema trattato. Un film che seppur ricostruzione storica, mette in evidenza la capacità artistica e la genialità dell’autore. Chi ha dimenticato la “bambina dal cappotto rosso” simbolo della tragedia dell’olocausto? Chi non si è sentito travolto dalla forza delle immagini in bianco e nero, che tornano a colori solo nel finale, con i superstiti della vicenda?
Susan Lucy ci racconta tutto questo attraverso una serie di interviste, organizzate in ordine cronologico e divise per episodi che narrano le fasi della vita di Spielberg. Sarebbe stato interessante sentire la testimonianza di un altro grande autore scomparso, Stanley Kubrick, che Steven amava più di ogni altro e a cui si è fortemente ispirato. Li accomuna infatti il grande eclettismo e la capacità di cambiare genere di racconto senza mai deludere il pubblico.
Il documentario è stato proiettato l’ultimo giorno della Festa del Cinema di Roma e, nonostante una presenza non massiccia di spettatori, non ha deluso. Non faceva parte degli ”Incontri ravvicinati” proposti dal Festival, ma ha dato comunque la sensazione di incontrare realmente il grande regista. Bisogna infatti riconoscere alla Lucy, l’abilità di aver saputo raccontare il genio artistico e la capacità creativa, senza dimenticare il ritratto dello Spielberg uomo. Quando si esce dalla sala forte è la voglia di vedere o rivedere ogni film, secondo la prospettiva nuova di chi conosce più a fondo un autore.

Eugenio Bonardi