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QUANDO UN PADRE di Mark Williams. Quel che manca all’eroe per essere perfetto

Quando un Padre
Quando un Padre

QUANDO UN PADRE di Mark Williams. Quel che manca all’eroe per essere perfetto. Dane Jensen (Gerard Butler) è il più bravo “cacciatore di teste” di una società di recruiting (“The Headhunter’s Calling” è il titolo originale del film), un reclutatore di talenti a capo di un team ora in competizione interna con quello della bella e glaciale Lynn (Alison Brie) per la successione al dimissionario ed ermetico boss Ed (Willem Dafoe). La competizione è spietata quanto i due leader. Pur di vincere il duello, Dane, oltre a inculcare nei suoi sottoposti un esasperato agonismo e a ignorare le autentiche esigenze delle sue “teste”, per evitare che i talenti vengano reclutati dalla concorrenza è disposto a bluffare e ricorrere a metodi illeciti.
Un’attenuante, seppur debole, per Dane c’è: la sua sfiancante corsa verso il maggior profitto, che lo assorbe giorno e notte, è volta a garantire all’adorata famiglia benessere e sicurezza in un periodo di crisi economica e incertezza sociale. L’inevitabile scotto da pagare, però, è il vuoto affettivo lamentato dalla moglie e dai tre figlioletti. Ci pensa il più grande di questi, il decenne Ryan (Max Jenkis), a mettere in crisi l’autodistruttiva corsa del padre: si ammala di leucemia. La vita di Dane si capovolge, così come la sua scala dei valori e la gestione del tempo. Egli, privilegiando casa e ospedale, rischia seriamente di perdere la sfida in azienda. Ma qual è, in realtà, la sfida decisiva di Dane? Insieme con la malattia del figlio, ci penserà il boss-demiurgo, a chiarirgli definitivamente le idee e aprirgli una nuova strada.

“Quando un padre” (curioso che, negli USA, riporti il titolo “A Family Man”, pressoché lo stesso del film con Nicolas Cage del 2000, “The Family Man”, analoga odissea-in-famiglia di un professionista tutto d’un pezzo sulle orme di Frank Capra) esibisce non soltanto una trama concepita su un’abusata e meccanica sequenza di colpi di scena, ma altresì il più trito bouquet di valori di certo cinema americano. Nel film di Mark Williams tutto ruota attorno all’Eroe e alla sua Famiglia perfetta: cuccioli-peluche e moglie adorante. Bravissima, la Gretchen Mol ammirata in “Manchester by the Sea”, peccato che la sceneggiatura di Bill Dubuque la costringa a mantenere dall’inizio alla fine verso il suo tenero macho – «un marito, un padre e l’ultimo dei romantici» – la medesima, allucinata espressione, quella di una donna da lui (ultra)soddisfatta in ogni aspetto eccezion fatta per quel frammento di cuore mancante, la cui riscoperta varrà il completamento dell’agiografia. Che capiremo essersi realizzata quando lei, al suo quarto «Io ti amo», riceverà da lui la stessa risposta avuta nei primi, incontaminati tempi del loro amore, risposta adesso rigenerata e rilanciata dalla lezione della vita: «Come si fa a non amarmi?». Sì, perché lui avrà finalmente capito che «i preliminari cominciano fuori dal letto» (e dunque al glorioso sesso animale saprà unire le dolcezze dell’amore) e i figli hanno bisogno di un padre di qualità e non solo di quantità (e quindi la protezione del professionista sarà integrata dall’esempio dell’uomo genuino).
Amplificatori degli occhi innamorati di lei, quelli dei figlioletti, “bambi” con smorfiette e vocine da pubblicità di merendine. Amplificatori degli amplificatori, infine, i personaggi di contorno. Contorno anche geografico: il primario indiano col turbante, più simile ad un maestro di meditazione che a un medico; il giovane e sensibile infermiere nero che investe nella propria formazione; il mite e coriaceo ingegnere fuori età dai tratti ispanici (Alfred Molina), anch’egli accompagnato da una moglie adorante cui nulla farebbe perdere la fiducia in lui. Tutti angeli custodi del Super Protagonista. A chiudere il cerchio, il più scontato iter medico vissuto dal bimbo. Il quale, come e più di E.T., muore e risorge due volte, quando ormai a ben pochi spettatori interessa qualcosa della sua sorte, infastiditi come sono dallo stucchevole percorso del padre.

Risiede probabilmente qui il difetto principale di tutta l’operazione: l’eroe ha la “e” minuscola perché minuscolo è il suo arco di cambiamento. Non è un vero “cattivo” all’inizio: la sua famiglia continua ad amarlo incondizionatamente e lui fa altrettanto (nessun’amante, nessuna droga, nessuna violenza), agisce sempre per il bene del quartetto perfetto e il suo reato più grave è una chiamata minatoria con scheda e telefono usa e getta; non può perciò diventare un vero “buono” alla fine: la sua trasformazione è minima e non si percepisce, Dane-Butler rimane se stesso, accantona soltanto alcune pratiche per irrobustirne altre. “Quando un padre” soffre delle debolezze tipiche dei film che celebrano protagonisti monolitici e paradigmatici, delegando l’evoluzione ai cambiamenti esterni. Evoluzione esteriormente impeccabile come la famiglia di Dane, e per questo insopportabile: la scansione delle svolte narrative pare scimmiottare un modesto abbecedario di sceneggiatura, dall’incipit sino a quell’ovvia introduzione al terzo atto, costruita sul classico doppio colpo di scena ravvicinato (bimbo-boss). Williams, d’altronde, qui alla sua prima regia, «ha portato – come recita il pressbook – all’interno del progetto la sua esperienza di produttore, guardando spesso oltre e dando consigli in merito ai gusti del pubblico e anche sulle attività di marketing relative al film». Hanno l’inevitabile sapore del marketing gli stessi presunti momenti di sospensione – dalla visita alle architetture di Chicago al bagno dove l’ingegnere ritrovato si chiude per festeggiare silenziosamente –, che anziché aprire squarci nella piatta dimensione del film lo appesantiscono ulteriormente.
Aggravante delle aggravanti, nella versione italiana, il doppiaggio di Luca Ward: stavolta, quella che è una delle più profonde, suggestive e amate voci italiane incamicia il già rigido protagonista in un’aura da gladiatore che isterilisce qualsiasi residua (speranza di) sfumatura.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.