Un piccione nella Wurderkammer: Leone d’Oro a Venezia 71
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Un piccione nella Wunderkammer. Alcune considerazioni sul Leone d’Oro a Roy Andersson
di Massimo Nardin. Mai come in questa sua 71ª edizione, la Mostra Internazionale d’ ArteCinematografica di Venezia sembra aver premiato… l’ arte . L’arte tout court. Leone meritato, Leone scontato, Leone a sorpresa, Leone cinefilo, Leone per il cinema di nicchia e contro le produzioni e i nomi più celebri… Le reazioni alla vittoria di Roy Andersson sono state diverse e, come accade per le premiazioni che fanno discutere, si potrebbero dividere tra due gruppi, quelle dei favorevoli e quelle dei contrari. Anche le motivazioni, pro e contro, sono differenti e abbracciano disparate argomentazioni.
Coloro che hanno apprezzato En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (Un piccione seduto su un ramo rifletteva sull’esistenza) ne hanno sottolineato innanzitutto la particolarità espressiva: trentanove inquadrature a camera fissa descrivono altrettante scene, le quali in più di un’occasione coinvolgono molti personaggi all’interno di spazi ampi o, comunque, ripresi in modo da farli sembrare tali (la maggior parte sono degli interni), strutturati altresì su più livelli di azione. Le geometrie e le linee di forza sono precise e le composizioni, meglio, i quadri richiamano le lezioni pittoriche di Bruegel, Hopper, Scholz e Dix, la loro capacità di andare oltre il realismo per fissare frammenti di vita in cui ogni personaggio, per quanto piccolo, non passa inosservato come nella quotidianità, ma riceve dall’artista la giusta luce, quella che ne manifesta la piena umanità.
Chi ha amato il film di Andersson è rimasto conquistato anche dalle modalità narrative. Anti-narrative, verrebbe da dire. Al pari delle immagini, le storie si spingono al di là del realismo. O, più precisamente, si posizionano sulla soglia tra realismo e fantasia, tra verosimile e incredibile. Dei film presentati in Laguna, Un piccione, forte della maturità, intelligenza e ironia del suo autore, s’è dimostrato il più vicino al surrealismo. La caratteristica che fonda tale corrente artistica (con buona pace del grande Buñuel, raramente perseguita in ambito cinematografico) è la convivenza di due dimensioni (in apparenza, solitamente) opposte che rimangono distinte l’una dall’altra pur nella effettiva compartecipazione alla resa espressiva dell’opera: realtà e sogno, leggi fisiche e pulsioni del desiderio, conscio e inconscio. Lo spettatore di un’opera surrealista riconosce sì l’impossibile unione delle due dimensioni ma, contemporaneamente, crede nella sua (più profonda e necessaria) verità. Ciò che accade nel film di Andersson. Ad un primo sguardo, infatti, gli ambienti e i personaggi sembrano pacificamente appartenere alla contemporaneità, così come la loro collocazione fa pensare al Nord Europa. Tuttavia, non abbiamo elementi certi per capire l’epoca esatta in cui la storia si svolge; addirittura, le due robuste incursioni del passato – il flashback che affianca alla taverna odierna quella del ’43 e i soldati di Carlo XII di Svezia dentro e fuori un bar dei giorni nostri – e il sogno di uno dei protagonisti – i colonialisti che fanno entrare gli schiavi in un enorme cilindro metallico girevole – dissolvono le certezze dello spettatore. Il quale, ad ogni cambio di scena, resta sorpreso, non potendo egli individuare una linea narrativa chiara che gli consenta di alimentare attese e previsioni sullo sviluppo di eventi e personaggi.
Ed è su questo aspetto che s’incentrano le critiche dei detrattori. Costoro insistono sulla gratuità (se non inutilità o, peggio, furbizia) del gioco di Andersson, sul fatto che il suo film sarebbe potuto durare pochi minuti o giornate intere e nulla sarebbe cambiato. Agli occhi dei perplessi, Un piccione sembra insomma un affastellamento di situazioni slegate (è lo stesso regista a dichiarare: «Ogni scena può essere vista separatamente») o persino un’operazione ammiccante per conquistare una giuria colta.
Come al solito, la verità sta nel mezzo. Un piccione non è affatto un film disomogeneo e caotico: ogni suo fotogramma rivela il sereno disincanto dei popoli dei paesi freddi, la loro disarmante (auto)ironia, il loro cinismo unito – senza soluzione di continuità – ad una sconfinata sensibilità, all’attenzione riservata agli umili e ai reietti, ai crimini e alle follie della storia, alle paure e agli aneliti di ogni uomo. I cromatismi, i personaggi, le ambientazioni, i tempi, i suoni, i ritornelli… tutto è percorso da un’unica linfa vitale, che rende il film un’opera densa e completa. Tuttavia, è innegabile che, durante la visione, affiori effettivamente il sospetto che l’autore si sia divertito, come un uomo bendato che, in cucina, prende qua e là ingredienti a caso e li butta nel pentolone. O come lo stralunato visitatore di una caleidoscopica Wunderkammer.
Che cosa ci voleva raccontare Andersson con Un piccione? Quali sono i punti fermi della narrazione, oltre al tormentone «Sono contento di sentire che stai bene» e ai due tristissimi venditori di improbabili scherzi? Il non-senso e la follia possono essere catastrofici; ma, quando sono osservati alla giusta distanza, rivelano una ricchezza rara e preziosa. Mentre una narrazione tradizionale mette-insieme sotto l’egida del sim-bolismo, l’anti-narrazione èdia-bolica nella misura in cui divide, apre interrogativi e squarcia la linearità del senso. Da questo punto di vista, Andersson sa essere coerentemente diabolico: limita al massimo la referenza al nostro mondo ordinario, ovvero decontestualizza storia ambienti e personaggi (che pure rimangono permeati dello spirito e della cultura dell’autore). Riuscendo pienamente a fare ciò (con cura maniacale: ogni scena ha richiesto settimane di preparazione), egli permette allo spettatore di abitare il denso e auto-regolato mondo dell’opera. Andersson ci chiede di vedere, prima di (cercare di) comprendere. Il suo è un attacco alla nostra anestetizzata contemporaneità: «Oggi, purtroppo, si bada poco alla qualità visiva, ci si concentra di più sulla narrazione». In un’epoca in cui tutto ciò che va oltre le mura domestiche deve avere una ragione, una spiegazione, un racconto coerente, un’immagine certificante, edificante e politicamente corretta, Andersson riesce nel miracolo di (farci) sospendere senso e referenza consueti e aprire interrogativi inediti nelle nostre coscienze.
Forse il suo film è uno scherzo, forse ci trasmette verità profonde. Chi lo può dire? Magari il piccione del titolo. Il quale, in effetti, più che riflettere sul l’esistenza, riflette l’ esistenza, così com’è, lontana da finalità e spiegazioni, con tutto il suo senso e il non-senso, senza soluzione di continuità. E così, beffardamente e provvidenzialmente, l’ultimo tra gli ultimi conquista la potenza di uno sguardo divino, e il microcosmo-Wunderkammer si fa universo.
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