Recnsione.The Iceman: si può diventare Killler per “necessità”?
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THE ICEMAN di Ariel Vromen. Recensione di MK.
La storia vera di un serial killer attivo fino al 1986 quando fu arrestato e condannato a due ergastoli e poi ucciso in carcere dalla mafia. Richard Kuklinski, un polacco che negli stati uniti fece parlare molto di se proprio per la particolarità del personaggio. Killer della mafia su commissione diventò famoso per il sangue freddo che aveva davanti a ogni missione omicida che gli veniva commissionata. Nella vita privata invece era un ottimo marito e padre, al punto che nessuno, compresa la moglie sospettasse di nulla. Questo è spesso possibile in una persona dissociata o se vogliamo bipolare, ma in questo caso, forse c’è anche un desiderio imperativo di appartenere ad una estrazione borghese che offuscò la sua coscienza. Questo, più il mito della famiglia americana, dei figli e della bella casa, ha giocato un ruolo fondamentale nella sua dissociazione. Un uomo che forse non amava la vita pericolosa del delinquente, ma che per le necessità economiche, che comporta avere una famiglia agiata, si era trasformato in un killer. Il film stesso ci fa capire che fu un caso che lo portò a fare quella scelta. E’ vero che un famoso ufficiale delle SS, che sterminava ebrei al ritmo di centinaia al giorno, quando era a casa coltivava le violette, anche se in quel caso vi era la “scusante” del dovere militare, e qui non c’è. Certo fa strano che, negli anni dei figli dei fiori e della non violenza, ci fossero persone che non disdegnavano l’omicidio come professione. Bene gli attori Michael Shannon e Ray Liotta che recitano bene la parte, e buona anche la regia che cerca di darci con il look e con la musica l’atmosfera dell’epoca post sessantotto. Per fortuna non c’è la carrellata dei cento omicidi a lui attribuiti che sarebbero risultati anche noiosi. Il film in effetti non vuole essere un film d’azione truculento, anche se avrebbe potuto, ma cerca di farci riflettere sulla follia umana e di come la coscienza umana spesso è al servizio dei nostri bisogni materiali, più che spirituali. Un film da vedere e da riflettere, perché non possiamo relegare ad un caso unico questa storia, ma chissà quanti killer sono stati mossi dalle stesse necessità. Non è certo il caso di giustificarli, ma compatirli sì, nel finale infatti il protagonista continua a dire a se stesso di non essere pentito, perché l’aveva fatto per la sua famiglia che sicuramente aveva amato più di ogni altra cosa: la follia ha raggiunto il suo apice, come nella magistrale scena finale di Psycho.
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