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Da oggi al 9 ottobre in sala il film-concerto di Roger Waters “Us+Them”

Da oggi al 9 ottobre in sala il film-concerto di Roger Waters “Us+Them”

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Roger Waters "Us+Them"

Roger Waters "Us+Them" Venezia 76

Roger Waters "Us+Them" Venezia 76

 

Da oggi al 9 ottobre in sala il film-concerto di Roger Waters “Us+Them”

“Us+Them”, diretto da Sean Evans e Roger Waters, comincia con un’immagine di quiete, i colori caldi del tramonto sopra un placido mare, su cui quello stesso tramonto si riflette. Ad osservare lo spettacolo c’è una persona seduta di spalle sulla riva. Vede quel cielo e quel mare cambiare repentinamente, il primo facendosi plumbeo e il secondo agitandosi a preannunciare l’imminente tempesta. Si scatenano fulmini che paiono bombe, i colpi di mortaio infiammano le

nuvole, grida di guerra si diffondono ovunque. Ed emerge il primo pezzo del film-concerto, anch’esso, in origine (1973), introdotto da un urlo crescente: “Breathe”.
Questo è uno dei brani eseguiti dal vivo da Waters con la propria band nel concerto di Amsterdam del 2017, una delle 157 tappe del tour mondiale che riportava lo stesso titolo del film e che s’è prolungato per più di un anno e mezzo (da maggio 2017 a dicembre 2018), toccando

America, Oceania ed Europa (il Circo Massimo di Roma compreso). Il film, distribuito da Nexo Digital, dopo la presentazione fuori concorso il 6 settembre alla Mostra del cinema di Venezia (con annesso incontro con il pubblico), esce oggi anche in alcune sale selezionate, in 4K e Dolby Atmos ma per tre soli giorni. Nei suoi 119 minuti è, al contempo, una condensazione del tour mondiale e la rievocazione di brani che, in gran parte, hanno più di quarant’anni ma dimostrano ancora tutta la propria attualità: “Breathe”, appunto, e “Time”, “Money”, “Brain Damage”, “The Great Gig in the Sky” e “Us and Them”, titoli arcifamosi del più celebrato album dei Pink Floyd, “The Dark Side of the Moon” (1973); assieme ad altri dell’altrettanto famoso “Wish You Were Here” (1975): il brano omonimo, ovvero la canzone del gruppo che qualunque chitarrista di qualunque angolo del globo ha suonato almeno una decina di volte nella propria vita, e il grido watersiano “Welcome to the Machine” (ma non il brano iniziale dell’album, quello del trionfo di chitarra di David Gilmour: “Shine On You Crazy Diamond”); e poi “The Wall” (1979), con la canzone manifesto di un’intera epoca “Another Brick in the Wall”; e soprattutto l’album in mezzo agli ultimi due, “Animals” (1977), con “Dogs” e “Pigs (Three Different Ones)”. A questi brani storici, si affiancano pezzi come “The Last Refugee” e “Picture That” da “Is This the Life We Really Want?” (2017), l’ultimo album solista di Waters.

Roger Waters "Us+Them" Venezia 76

“Us+Them”: Noi e loro, ovvero da una parte noi, dall’altra i politici…
Complici i mega schermi, gli studiati e complessi giochi di laser e luci e l’impressionante architettura centrale che prende a poco a poco forma sopra il pubblico riproponendo la Battersea Station sulla copertina dell’album del ’77, ovvero la fabbrica con le quattro ciminiere bianche (quattro come i membri del gruppo all’epoca), sull’oceano sonoro del live si sovrappone un “film nel film”: immagini che proseguono e amplificano l’incipit, raccontando la storia di una madre e della piccola figlia in fuga dalla guerra, assieme a situazioni di bombardamento, distruzione ed esodo, e approdano ai grassi maiali, i “pigs”, i ricchi sempre più ricchi e i politici che, nelle loro torri d’avorio, giocano con le sorti del pianeta e dei suoi abitanti sempre più poveri. E via dunque al carosello di slogan a lettere cubitali: «Fuck the pigs», «Resist», «Stay human», l’amore che ci unisce, l’azione collettiva che salva… A coronare il tutto, la verve indomita del bassista leader, che, con gli occhi sgranati e il ghigno ribelle, incita il pubblico a gridare i suoi slogan e, addirittura, recita (una “recita nella recita”) con i membri della sua band una provocatoria scenetta a base di champagne, brindisi e maschere di maiale. Non voglio “spoilerare” altro, ma non serve molta fantasia per immaginare quale sia, tra i politici delle superpotenze mondiali, quello cui Waters assegna – con tanto di mega ritratto, salaci caricature e inserimento del nome all’interno del brano “suino” – il ruolo di “super maiale”, un maiale che il pubblico è invitato a “fuck!”.
Questo è quanto. Per chi si è avvicinato ai Pink Floyd da poco, il film di Evans-Waters offrirà certamente l’occasione per riscoprire i brani che hanno fatto la storia di uno dei gruppi rock più importanti di sempre, canzoni diligentemente riproposte, (a differenza dei maiali volanti) non eccessivamente gonfiate, eseguite con la giusta dose di partecipazione. Insomma, attenendoci al solo livello musicale e dunque senza tener conto del mastodontico impianto pirotecnico che vi ruota attorno, la presenza di Waters, qui unico membro originario, fa la differenza tra questo concerto e quello delle migliori cover band dei Pink Floyd sparse in giro per il mondo. Ovviamente, non restituisce la magia dei concerti dell’epoca.
Questo, sia per l’assenza di tutti gli altri membri del gruppo, sia per la gabbia che – proprio come una gigantesca Battersea Station – imprigiona il progetto. Il quale, da un lato, risulta troppo perfetto, studiato, paradossalmente troppo frenato e “pubblicitario”. Innanzitutto, per quel che riguarda le esecuzioni: tutte filologicamente corrette, senza infrazioni del “già sentito” né salvifiche divagazioni. A metà anni Ottanta, Waters s’era emancipato dal suo gruppo, intraprendendo la carriera solista per esprimere contenuti nei quali davvero credeva. E lo fa ancora oggi, con una coerenza esemplare. Tuttavia, e questo film-concerto lo dimostra appieno, la sua fortuna (l’ascolto che riceve e che gli permette di esprimere disinvoltamente quegli stessi contenuti) poggia esclusivamente sui grandi successi composti con i membri abbandonati. Lui lo sa, e sta ben attento a non intaccare minimamente quel tesoro di memoria. Il brano “The Great Gig in the Sky” offre probabilmente la prova più chiara. Quello che è da molti ritenuto il capolavoro assoluto di un’intera discografia, composto non da Waters né da Gilmour, ma da Richard Wright (il co-fondatore del gruppo e lo stesso che Waters avrebbe poi licenziato con “The Wall”) e la cui insuperabile versione originale è cantata da una strabiliante Clare Torry, nel film-concerto di Waters è affidato alla reinterpretazione del duo Lucius. Le cantanti Holly Laessig e Jess Wolfe sono bravissime, non tanto nella esecuzione, quanto nell’operazione “nostalgia senza tradimento”: impossibile anche solo provare ad avvicinarsi al dirompente splendore uscito dall’esile corpo della Torry, meglio quindi stare un gradino sotto e dividersi l’ingrato compito senza aggiungere alcunché di nuovo, citare cioè l’originale con la massima devozione, celebrarlo a distanza pur senza staccarsene.
Nulla di nuovo sul versante musicale, quindi, e ancor meno – ahinoi – su quello filmico e contenutistico. Se nel precedente “Roger Waters. The Wall” il nome di Waters compariva nel titolo ma non nella regia, in “Us + Them” accade il contrario. Il risultato è un’opera molto più convenzionale e piatta della precedente. La quale, invece, acquisiva la propria originalità proprio grazie all’inserimento – “oltre” le immagini e i suoni del concerto – del ricongiungimento di Waters con il (ricordo del) proprio padre mai conosciuto (morto nel 1944 durante lo sbarco di Anzio). Un ricongiungimento ideale e fisico, con la trasferta della rockstar nella provincia laziale e il suono della tromba in ricordo del caduto e di tutti i suoi compagni uccisi, che emoziona e apre squarci di senso, non tanto sul concerto quanto sulla vita stessa del suo protagonista. Ebbene, in “Us + Them” non si respira nulla di tutto ciò: le immagini di guerra, disperazione e distruzione sono quanto di più codificato ci possa essere, attori belli in ambientazioni teatrali e universalmente accettabili; gli slogan, poi, sono la ciliegina sulla torta della semplificazione imbellettata: si predica la pace e la fratellanza, in realtà si scivola su semplificazioni infantili e tendenziose contrapposizioni che sono – quelle sì – la più facile preda dell’odio.
C’era una volta il gruppo dei Pink Floyd, con il suo “Us” unito al “Them” dall’“and”; oggi c’è un uomo solo che, strizzando l’occhio al mondo binario, tiene a distinguere bene quell’“Us” dal “Them” con il segno del “+”.

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