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The Son di Florian Zeller: ritratto netto della famiglia in cui “l’amore a volte non basta”…

The Son di Florian Zeller: ritratto netto della famiglia in cui “l’amore a volte non basta”…

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The Son di Florian Zeller: ritratto netto della famiglia in cui “l’amore a volte non basta” #recensione

C’è una madre, divorziata (interpretata da Laura Dern), che vive con il figlio adolescente Nicholas (Zen Mc Grath). Il padre Peter (Hugh Jackman) sta con un’altra donna più giovane (Vanessa Kirby) e ha appena avuto un altro figlio. Tra le pieghe di una vita in cui sembra che a Nicholas non manchi nulla, si scopre che invece il 17enne non va più a scuola da tre mesi, segno di una piena crisi esistenziale. E’ lo spunto di “The son”, nuovo film del francese Florian Zeller, anche scrittore drammaturgo autore di una trilogia sulla famiglia composta anche da “La madre” e “Il padre” (quest’ultimo trasposto sugli schermi nel 2020 e vincitore di un Oscar alla sceneggiatura).

La storia è essenziale. E, in fondo, già esplorata tante volte: è quella di una coppia separata con uno dei genitori (il padre) professionista di successo, al punto dall’essere a un passo dall’entrare in politica nello staff presidenziale. E dei figli la cui vita non corre all’altezza delle aspettative dei genitori, immersa in un mondo e in un tempo diversi, spesso irriconoscibili, specie quando si affaccia all’orizzonte il disagio mentale, quel disagio di vivere purtroppo più diffuso fra i ragazzi di oggi. Sullo sfondo, assieme ai sensi di colpa degli adulti incombe il tema del confronto generazionale, uno dei temi del futuro. Gli adolescenti sono sempre più inondati di informazioni e di “diversivi”, ma per paradosso risultano meno formati, privi di quella “corazza” che dovrebbero dare loro la famiglia e la scuola, “agenti-chiave” della società.

Pur essendo tematiche non nuove per il grande schermo, in “The son” (già presentato alla Mostra di Venezia e ora in uscita il 9 febbraio, distribuito da 01), Zeller mette a fuoco l’eterna vulnerabilità di uomini e donne, adulti e minori, e lo fa con linearità e rigore stilistico. Il film ha alla fine il pregio di essere costruito in crescendo e di tenere avvinti alla poltrona, forse proprio per l’eternità degli argomenti trattati, anche se lo sviluppo della storia è sin troppo prevedibile sul piano narrativo. Merito anche delle superbe interpretazioni del trio Jackman (qui calato in una prova lontana dai prototipi mascolini del passato e che meritava almeno una candidatura all’Oscar)-Dern-Anthony Hopkins, cui il regista riserva poche ma maiuscole inquadrature in uno spietato pranzo-confronto fra Peter e il di lui egocentrico padre, Hopkins appunto, i quali non hanno ancora rimarginato le ferite del loro rapporto padre-figlio: è una scena che da sola vale la visione del film. Come ha detto in un’intervista Jackman, nell’opera c’è una battuta molto importante: «Non sempre l’amore è sufficiente». Tutti i protagonisti amano tanto, eppure risultano isolate nel mondo circostante e quell’amore non basta per salvarle. Peter risulta un uomo carismatico, ma issato su un piedistallo d’argilla, come a volte sono i leader. Un dramma familiare ben girato e montato che si svolge in gran parte nell’appartamento di Peter e Beth, reso ancora più cupo dalle pareti a mattoni “vivi”. Uno sfondo messo volutamente in contrasto con le immagini piene di luce dei ricordi dei giorni felici, vissuti al mare nei primi tempi della famiglia “d’origine” e ricordati davanti a una coppia di Martini. Non manca un doppio finale forse un po’ “buttato là” troppo in fretta, ma che nel complesso non fa mutare il giudizio sulla pellicola.

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