Un classico e robusto David Fincher in concorso a Venezia 80 con “The Killer”
Condividi questo articolo:
Proiezione in Sala Grande, ieri sera, per il film in concorso “The Killer” di David Fincher.
Partendo dall’omonima miniserie a fumetti di Matz e Luc Jacamon, David Fincher torna a collaborare con Andrew Kevin Walker, autore della sceneggiatura di “Se7en”. Rispetto a quel suo folgorante secondo lungometraggio e per la prima volta in maniera esclusiva, Fincher ribalta la prospettiva e si mette qui nei panni del “cattivo”, del killer (uno scarnificato, ascetico e glaciale Michael Fassbender).
Al quale è stata commissionata l’ennesima eliminazione, quella che apre il film. E che, nonostante l’attesa estenuante e la maniacale preparazione, non va per il verso giusto,
catapultando all’istante il protagonista in una spirale di pericoli, per sé e per l’amata compagna lasciata sola nel lussuoso buen retiro in riva al mare. Comincia per l’eroe – senza nome e con mille false identità – una caccia inesausta al commissionante insoddisfatto, attraverso i vari gironi danteschi rappresentati dalla catena degli attori della contro-missione volta all’eliminazione del killer caduto in disgrazia. Una ricerca in sei capitoli quante sono
le operazioni da portare a termine. Fino al confronto con la donna alter ego del killer (una monumentale Tilda Swinton) e… l’ultimo, decisivo incontro.
Fincher ritrova la dimestichezza narrativa degli esordi cinematografici e dell’esperienza con la serialità (“House of Cards”: “The Killer” è di Netflix e sarà subito in piattaforma dopo
una breve comparsa in sale selezionate), disegnando un film d’azione intriso di chiaroscuri e richiami filosofici (la voce fuori campo del protagonista, un monologo-mantra che
sottolinea i momenti topici) nel quale l’azione concitata si alterna a magnetici silenzi e intense pause. Fassbender è perfetto nel suo “essere e non essere”, un “uomo che non c’era”, un fantasma di ossa e nervi, per certi versi corrispettivo del resista stesso e della sua meticolosità nell’interpretare il lavoro cui dedica la propria vita, apporto sostanziale eppur invisibile.
Due appunti. Da un lato la trama, che, per quanto avvincente, ordisce un’escalation abbastanza prevedibile, o comunque meno strutturata e spietata di altre opere fincheriane di medesimo genere (“Se7en” appunto, e pure “Zodiac”). L’impostazione poi di un racconto interamente dalla parte di uno spietato killer – sotto i cui colpi cadono non soltanto i mandanti ma anche comprimari spesso ignari di quel che realmente si sta consumando – e la
svolta che quel racconto assume sembrano lanciare una sadica e insinuante provocazione.
Ma d’altronde, come ci ricorda il killer, chi di loro – e di noi – è davvero senza colpa?
Commento all'articolo