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“Bones and all” di Luca Guadagnino: l’amore che mangia tutto…

“Bones and all” di Luca Guadagnino: l’amore che mangia tutto…

Luca Guadagnino prosegue il suo viaggio nei meandri dell’amore, motore eterno dell’agire umano, di quell’amore che, quando è vissuto con trasporto totale, ti spolpa “fino all’osso”, fino alle “ossa e tutto”, come da titolo (“Bones and all”) di quest’ultimo film del 51enne regista e sceneggiatore palermitano, ormai una certezza del panorama cinematografico nazionale. Stavolta, abbandonata la provincia del Nord Italia di “Chiamami col tuo nome”, Guadagnino si è trasferito armi e bagagli negli States per la sua prima opera interamente girata lì: le placide campagne sono state sostituite da orizzonti immensi, campi secchi e periferie desolate, tipiche di certi paesaggi americani. Periferie geografiche e anche esistenziali, perché questo tipico “road movie” senza tempo di ciò parla. Le ossa di cui sopra non sono casuali: da esse all’altro tema del film – l’amore “cannibale” – il passo è breve, come corto lo è però quello che separa una bella pellicola da un film anche sapienziale – nelle interpretazioni, nel montaggio, nelle musiche –, ma alla fine riuscito a metà.

Bones and all Così è per “Bones and all”, già presentato alla Mostra del cinema di Venezia, un adattamento del romanzo di Camille De Angelis, storia di un viaggio nei margini della società, là dove vivono donne e uomini emarginati dalle condizioni di lavoro o anche “di partenza” della propria esistenza. E’ il caso di Marven e di Lee, interpretati rispettivamente dall’ottima Taylor Russell, incarnazione perfetta della malinconia, e dal nuovo astro Timothée Chalamet (attore già iconico per Guadagnino), che si incontrano per strada dopo esser stati sbattuti fuori dalle proprie famiglie in quanto… dediti al cannibalismo. Una pulsione scoperta quasi casualmente da Marven nelle relazioni adolescenziali, durante un “pigiama party” con le amiche, che la porta poi a essere abbandonata anche dal padre e ad imbattersi in pochi giorni in altri due suoi simili, prima di allora mai incontrati – già di per sé evento zoppicante nella sceneggiatura di David Kajganich: appunto il solitario, ma energico Lee e l’eccentrico Sully, uomo di mezza età (lo interpreta un altrettanto bravo Mark Rylance) caratterizzato dalla sottile coda di cavallo e dal cappello con una lunga piuma.

La metafora è evidente nell’immaginifico universo filmico di Guadagnino: il corpo dell’altra/o da amare, fino al volerlo mangiare a morsi, anche nel rapporto genitori-figli (Marven è in cerca della madre mai conosciuta, mentre Lee rimpiange il calore della famiglia lasciata), come linfa vitale per affrontare le difficoltà legate alla «solitudine dell’esistere e, contemporaneamente, al desiderio di spezzare questa solitudine attraverso l’essere guidati da un altro», come ha spiegato Guadagnino. E metafora anche dell’emarginazione in cui sempre più si dibattono i giovanissimi. Il pretesto, d’altronde, ha una tradizione letteraria, anche consolidata, che affonda in Dante (il cuore dato in pasto alla donna amata della “Vita Nuova”) e Boccaccio. Marven e Lee (e Sully) si dibattono, si cercano e si riconoscono con la bocca sporca di sangue umano, inebriandosi del loro odore, quell’odore che li porta ad annusarsi e a trovarsi a distanza di centinaia di metri, anche nelle tenebre, anche nello squallore di un prato notturno, quasi come dei vampiri (evidente il lascito di “Suspiria”, film del 2018 di Guadagnino, bravo nello strizzare l’occhio magari ai più giovani senza cadere comunque nel trash di certe saghe del genere). Ma quando il pretesto finisce comunque col prevalere sulla narrazione, ecco che il film incespica e lascia perplessi. Tutto – ripeto – è ben confezionato e ci si lascia coinvolgere in fondo dalle vicende dei due adolescenti. Se poi ci si ritrova però ad aspettare la prossima scena granguignolesca più che lo sviluppo futuro del racconto apologetico sulla forza (ma anche le pecche) dell’amore che abbatte i muri di solitudine, ecco che può essere certo un limite dello spettatore, ma forse anche l’autore dovrebbe porsi qualche domanda sulle intenzioni (tradite) di una trovata che alla lunga allontana da quella che dovrebbe essere la “carne viva” (per restare in tema) della materia trattata.