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Cannes 72 applaude “Il traditore” di Marco Bellocchio

In concorso al 72° Festival di Cannes, Marco Bellocchio incanta il pubblico presente al Grand Théâtre Lumière, che gli regala quasi un quarto d’ora di scroscianti applausi. Un’autentica ovazione – per il regista ma anche per il magnifico cast, a cominciare dal protagonista Pierfrancesco Favino – che premia un film intenso, d’autore e al contempo di profondo impegno civile, riflessivo e incalzante, che sa passare dalla scena d’azione a quella introspettiva con una naturalezza e una fluidità rare.
La prima di Cannes e la conseguente uscita del film nelle sale italiane coincidono con il 27° anniversario della strage di Capaci, in cui persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Ed è proprio sotto l’ala protettiva di Falcone che sembrano muoversi Bellocchio e il suo protagonista. Il rapporto tra Tommaso Buscetta e Falcone (un intenso Fausto Russo Alesi), per quanto solo una delle componenti dello sfaccettato mosaico che disegna la figura di questo “traditore”, è il filo rosso che lega l’intero racconto. Un rapporto tutt’altro che agiografico, ma autentico e diretto, tra due uomini che, al di là degli antitetici ruoli che rivestono, credono fermamente nel valore della famiglia e dell’amicizia sincera.
La storia comincia con la riunione (con foto di gruppo) dei capi mafiosi e la successiva, sanguinaria e distruttiva (dei rivali e del tradizionale modo di intendere “Cosa nostra”) strategia stragistica di Salvatore Riina, prosegue con la fuga in Brasile di Buscetta e il ritorno in Italia per il Maxiprocesso, approdando agli ultimi anni di vita del protagonista.
Bellocchio, mentre in “Buongiorno notte” ometteva programmaticamente le scene tanto del rapimento di Aldo Moro quanto quella del suo assassinio, anzi addirittura ribaltando oniricamente quest’ultimo, ne “Il traditore” mette invece in immagini le uccisioni di alcuni dei capi mafiosi. Si tratta della prima volta in cui, nel cinema del regista piacentino, entrano gli spari, il sangue e la morte violenta. Quando gliel’ho fatto notare (nell’intervista che mi ha concesso e in conferenza stampa), egli ha risposto di aver affrontato tale soluzione supportato da tutte le competenze tecnico-scenografiche adatte e di aver voluto distaccarsi nettamente dalla rappresentazione della violenza cui i media e gran parte del cinema ci avevano abituato. Le scene degli assassinii sono infatti limitate ed essenziali, colpi secchi che al contempo aprono lo sguardo su dimensioni altre. Penso, tra gli altri, all’assassinio nell’officina degli specchi: una scena mirabile, di inseguimento e sparatoria sì, ma insieme una moltiplicazione segnica della vittima, della sua disperata fuga, dell’ineluttabilità del suo destino.
Sono tanti i momenti alti del film di Bellocchio. Che ci restituisce il ritratto complesso di un “lavoratore agricolo” mafioso per scelta, un alieno dai mille volti e le tante donne, attento al proprio aspetto e alla qualità della vita e dei rapporti. Tutto il contrario di tanti suoi “colleghi”. Ma allo stesso tempo un tradizionalista, se è vero che Buscetta non condivideva il radicale e autodistruttivo cambio di impostazione imposto da Riina a “Cosa nostra”.
Favino (della cui straordinaria, mimetica e insieme personalissima interpretazione la Giuria di Cannes è necessariamente chiamata a tener conto) ha rivelato in conferenza stampa di essersi avvicinato alla parte oscura di Buscetta, quella lontana dai riflettori e in nessuna fotografia immortalata, la componente umana che avvicina a noi un uomo che resta un criminale dall’operato ingiustificabile. Bellocchio ce lo ricorda in più di un’occasione fino alla conclusione, e al contempo esplora l’umanità di un uomo coerente, “traditore” agli occhi di chi tradiva realmente il retroterra culturale da cui proveniva.
Un po’ come Buscetta, Bellocchio ha dimostrato di sapersi rinnovare rimanendo se stesso: con un linguaggio inedito, ha dato vita ad un’affascinante sinfonia, amalgamando anni di storia ed episodi pubblici e privati, materiali d’archivio e ricostruzioni immaginarie con la preziosa e semplice densità di un maestro del cinema mondiale.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.