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Dal RIFF arriva nelle nostre sale “Tra le onde”, il nuovo film di Marco Amenta

Sveva Alviti davanti alla locandina del film (movieplayer.it)

Presentato il 23 novembre scorso al RIFF Rome Independent Film Festival, è ora nei nostri cinema “Tra le onde”, il nuovo film di Marco Amenta, con Vincenzo Amato e Sveva Alviti. Lo raccontiamo con due interviste esclusive.

Un locale abbandonato a Lampedusa, affacciato sul mare e percosso dal vento. L’insegna luminosa che il suo proprietario accende davanti ad un carabiniere e all’incaricato della vendita indica che quel locale, un tempo, si chiamava “Sirena blu”. Un tempo passato e sospeso, bloccato nell’arredamento avvolto nei teli di plastica, nella scenografia scomposta e in quell’abito da donna rosso luccicante poggiato sopra uno stenditoio. Il proprietario è il protagonista della storia, si chiama Salvo, è un uomo di mezza età solo, chiuso nel proprio isolamento. Ha subito una perdita affettiva dalla quale nessuno, nemmeno il fratello, è riuscito sino ad ora a farlo riprendere: Lea, la donna amata, se ne è andata. Una notte Salvo si getta dalla propria barca e porta a riva un immigrato che stava affogando. Un tentativo disperato che tuttavia non salva la vita al naufrago. Negli indumenti di quest’ultimo ci sono la fotografia della compagna e un documento di trasferimento di denaro, che riporta il nome di lui, Nadir, quello di lei, Farida, e l’azienda siciliana nella quale costei lavora. Quel ritrovamento è una scintilla che accende il cuore di Salvo. Il quale pensa bene di sfruttare il vecchio furgone frigo del fratello pescatore: offertosi di vendere lui, quella volta, il pescato, vi carica di nascosto il corpo di Nadir e parte alla volta di Palermo. Salvo si mette così alla ricerca di quella donna africana, forse la troverà, forse troverà Lea, sicuramente quel viaggio – che lo farà spostare in Sardegna – sarà per lui l’occasione di ritrovare se stesso e una ragione al dolore che lo affligge.

Sono molti i meriti di Marco Amenta in questo suo nuovo, piccolo, grande film. Innanzitutto, il concentrare l’intera vicenda su un protagonista unico, immerso nella propria sofferenza e circondato da figure e situazioni ora attuali e presenti, ora del passato o addirittura immaginarie. A tale merito se ne collega un altro, sua naturale prosecuzione: la transizione da uno stato all’altro avviene senza soluzione di continuità, in una fluidità di rara raffinatezza, nella quale il momento rievocativo o immaginifico non è né artatamente celato né ostentatamente celebrato. Tanto che nessun “salto” viene percepito come tale dallo spettatore e nessun enigma obnubila la sua visione. Lo spettatore partecipa infatti – assieme al protagonista – all’omogeneità e alla “necessità” di un viaggio interiore prima che fisico, da vivere prima che interpretare. E così – altro merito, intuito sin dal piano sequenza iniziale, che esplora (ed espande) il locale e introduce al racconto – il paesaggio che attornia Salvo è espressione della sua anima, anche qui senza forzatura alcuna, e le riprese a piombo dall’alto (droni) paiono disegnare le vie e gli snodi di un labirinto cerebrale. Parallelamente, il “doppio” che s’insinua da subito nella trama – una “doppia Lea”, una “doppia coppia”, un “doppio destino”, un “doppio ritrovamento”, un “doppio congedo” – è formato da due termini che non sono ripetizione ma salvifico – e per questo inizialmente difficile da accettare – ribaltamento l’uno dell’altro, scongiuramento della ripetizione e disvelamento di una nuova vita.
“Tra le onde” è un “film-cervello”, un “tutto” precisamente distinto nelle sue parti e al contempo unione di quelle stesse in un’armonia superiore e caleidoscopica: è questo il regalo che Amenta ci fa con quest’opera. E con i suoi protagonisti, un Vincenzo Amato che porta scolpite sul volto, nel fisico e nell’incedere tutte le asperità e le aperture di senso del film; e una meravigliosa Sveva Alviti, la luce che, passo dopo passo, rischiara questa notte dell’anima e offre un oriente al tormentato viandante.

Abbiamo posto alcune domande al regista e alla sua interprete.

Marco Amenta davanti alla locandina del film (cineuropa.org)



— Marco Amenta —

Domanda – Innanzitutto mi complimento con Lei, Marco Amenta, per la “rigorosa e feconda semplicità” della Sua opera. Ci racconti com’è nata, qual è stato l’iter produttivo.
Risposta – Grazie innanzitutto di queste belle parole. Il film è nato dall’esigenza, dall’urgenza di raccontare il problema dell’immigrazione. Un problema che mi tocca direttamente, non solo in quanto siciliano, ma innanzitutto come europeo e, semplicemente, essere umano. In realtà, dovrebbe toccare ognuno di noi e farci riflettere. La storia di questi uomini, donne, bambini, che lasciano la terra natale, attraversano il Mediterraneo rischiando la morte per dare un futuro migliore ai loro figli è qualcosa di profondamente umano che va al di là della nazionalità e delle frontiere. Queste ultime non sono nient’altro che strutture artificiali create dall’uomo, in natura non esistono. Ritengo quindi sbagliato edificare muri, impedire ai migranti di sbarcare, sfruttare questi temi come propaganda politica.
Cinematograficamente, volevo raccontare una storia d’amore. Anzi due, che si intrecciano, e con esse indagare l’animo e la mente umani. Il cinema può raccontare il pensiero conscio e quello inconscio di un uomo, nel nostro caso l’inconscio di un pescatore siciliano che fa un viaggio esteriore e soprattutto interiore. Per affrontare questa sfida ambiziosa, ho cercato una forma che si adattasse a un tale racconto intimo, mentale, dell’inconscio. Quest’ultimo, come sappiamo, non ha uno sviluppo lineare, causa-effetto, ma è capriccioso, fa strani salti temporali e di luogo. Quindi, anche nel racconto formale del film, ho preferito seguire questo stile, proprio per raccontare non attraverso le parole ma le atmosfere, i silenzi, le immagini, la non-linearità del montaggio.
Il cinema può essere ambizioso e raccontare diversamente rispetto alle storie classiche cui siamo abituati. In più, il grande schermo ci offre un’immersione totale per un’ora e mezzo. Lo spettatore regala a noi registi il proprio tempo e noi dobbiamo farlo viaggiare, nel tempo, nello spazio, nel subconscio. Questo è stato il mio tentativo con “Tra le onde”, far viaggiare lo spettatore nel subconscio del protagonista e della protagonista.

D – Come si colloca quest’opera nella Sua produzione?
R – Vengo dalla preparazione di due lungometraggi di finzione, uno sull’ILVA e l’altro sul Premio Nobel per la Pace Yunus, progetti che, per varie ragioni, non sono ancora decollati. Nel frattempo, ho realizzato tanti documentari, docu-fiction: “Magic Island” è stato nominato ai David di Donatello, un altro mio lavoro è incentrato su una ragazza pastora a nord di Roma, un altro ancora su Berlusconi (è uscito in Francia)… Insomma, il lungo e appassionante lavoro nel documentario mi ha nutrito tantissimo. La finzione, invece, mi permette di spaziare artisticamente e sperimentare nuove forme. È interessante essere innovativi, rompere degli schemi, inventarsi nuovi linguaggi.

D – E quali sono stati i primi riscontri, ad esempio al RIFF?
R – Il riscontro del pubblico al RIFF, ma anche in Sardegna, dove ho presentato il film, è stato molto positivo. A fine film, gli spettatori erano ammutoliti, in silenzio, riflessivi. Per qualche minuto li vedevo ancora immersi nella dimensione del film. È proprio ciò che io cerco nel cinema ed è per me una gratificazione, perché significa che ho permesso loro di viaggiare. Mi ricordo quando, studente, andavo alla Cinémathèque di Parigi e vedevo i film di Sergio Leone (“C’era una volta il West” e altri): finito il film, non sapevo esattamente dove mi trovassi, iniziavo a ricordarmelo soltanto dopo. Secondo me è quella sensazione di spaesamento, al riaccendersi delle luci, il valore aggiunto del cinema. I commenti a “Tra le onde” sono stati davvero positivi, molti spettatori si sono detti toccati la storia. Il significato è emerso in loro poco a poco, tutti hanno compreso le due storie d’amore parallele e l’intreccio li ha fatto riflettere e affermare che, sull’immigrazione, è stato mostrato e detto molto, ma mai in queste forme. “Tra le onde” offre insomma l’occasione per identificarsi in un immigrato, ridotto troppo spesso a numeri, percentuali, statistiche, a fronte di morti ogni volta uniche e terribilmente concrete. In questo film, si vive una identificazione diretta col ragazzo morto, attraverso le lettere, le foto nascoste, l’affetto invisibile all’esterno.

D – Come s’è evoluto il film dalla fase di scrittura a quella delle riprese e del montaggio? Quest’ultimo era stato pianificato a monte o ha poi costruito la struttura del film?
R – Il montaggio era in gran parte previsto in fase di sceneggiatura. Poi però, nella fase del montaggio, abbiamo aumentato, frammentato ancor più la linea narrativa, per farle seguire un percorso del subconscio, deviando quindi dall’impianto classico e lineare, pressoché imprescindibile per le produzioni televisive e delle piattaforme, incentrate su una semplicità drammaturgica che io volevo evitare. Non per principio, ma perché questa storia lo esigeva. Una storia che non è una “confezione pronta all’uso”, ma offre allo spettatore una emozione, uno scuotimento nelle viscere, ponendo delle domande anziché dare subito delle facili risposte.

D – Grazie!
R – Grazie a Voi.


— Per Sveva Alviti —

Domanda – Innanzitutto mi complimento con Lei, Sveva Alviti, per l’“intensa rarefazione” della Sua interpretazione. Un ruolo difficile, una donna sospesa tra realtà e immaginazione, tra desiderio e paura. Come ha affrontato il personaggio di Lea?
Risposta – L’ho affrontato con un approccio molto realistico. Non volevo essere condizionata dalla consapevolezza che lei potesse essere altrove, in un’altra dimensione. Lavorando con una sensazione di addio e di morte molto forte nello stomaco, le mie reazioni si sono rivelate sempre autentiche, speciali, inattese. Lea è un personaggio che mi ha affascinata molto, l’ho trovato molto genuino, dolce, ma anche triste perché sta dicendo addio alla persona amata.

D – Il regista aveva pensato subito a Lei oppure ha affrontato un casting? Nel caso, che cosa secondo Lei ha colpito maggiormente il regista?
R – Non credo che Marco avesse pensato subito a me. Mi hanno fatto fare un provino, nel quale recitavo un monologo in realtà poi tagliato dal film per motivi di montaggio. Nel brano scelto raccontavo a Salvo quello che era successo quella notte. Era un monologo molto duro e forte. Quando lo recitavo, ho conosciuto Lea, la sua storia, mi sono sentita un tutt’uno con lei. Marco è rimasto molto colpito dalla mia prova, credo che abbia percepito che c’era una connessione molto forte tra me e il personaggio di Lea. Da lì è cominciato il nostro percorso insieme per il film.

D – Lei è intervenuta anche in fase di scrittura, o comunque rivedendo assieme agli autori alcuni dialoghi o azioni?
R – No, non sono intervenuta in fase di scrittura perché il mio personaggio mi piaceva molto com’era. Con Marco e gli altri sceneggiatori abbiamo fatto delle prove per raggiungere la massima naturalezza possibile in questa storia così enigmatica e particolare, ricercando la verità dei personaggi attraverso le parole. Insieme, abbiamo cambiato qualche scena, dei modi di dire certe cose, che magari sentivamo non perfettamente organiche. Per il resto, quando lessi la sceneggiatura, la trovai molto bella, molto diversa da ciò che si vede e si legge abitualmente.

D – Che sensazioni ha provato recitando su tre diverse isole italiane?
R – Ho girato più all’estero che in Italia. È stato quindi per me molto affascinante scoprire luoghi che non conoscevo, soprattutto posti che vengono considerati “commerciali”, turistici. Con questo road movie, invece, ho scoperto un’Italia delle isole – Sardegna e Sicilia – incredibile, e vivere quei luoghi d’inverno è ancora più suggestivo perché non sono frequentati dal turismo dei mesi estivi. I luoghi scelti dal regista, d’altronde, sono un po’ i “non luoghi” dell’anima, dell’interiorità dei nostri personaggi.

D – Grazie!
R – A Voi.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.