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IL DIRITTO DI CONTARE (“Hidden Figures”) di Theodore Melfi

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In “Hidden Figures”, terzo lungometraggio di Theodore Melfi (reso in Italia con il triste “Il diritto di contare”, titolo perfetto per una fiction di denuncia nostrana), l’uscita dal “nascosto” di un terzetto afroamericano di scienziate superdotate e il loro conseguente raggiungimento del pieno e meritato riconoscimento (bianco) è sineddoche della parallela e problematica liberazione di un’intera etnia dalla segregazione razziale negli Stati Uniti d’America del secolo scorso.
Siamo infatti all’inizio dei favolosi anni Sessanta, un decennio carico di novità e contraddizioni, secolari tensioni ed elettrizzanti aspettative: complice JFK, una nuova America si sta affacciando sul e oltre il nostro pianeta. E così, sotto l’occhio vigile e partecipe (nonostante l’apparente indolenza) del loro imbolsito capo masticatore di chewing gum Kevin Costner, le tre donne fanno carriera, contro ogni pronostico e pregiudizio (a partire da quelli, blandi, di Kirsten Dunst) e per il bene della nazione comune.
Per raccontare la difficile, (un poco) ostacolata ma inesorabile ascesa di queste talentuose reiette senza macchia, Melfi sceglie la strada più ovvia e abitualmente percorsa in film di questo genere, ossia la ripetizione cadenzata di un rodato meccanismo di suspense in quattro mosse: il reietto è dotato di qualcosa che i potenti non hanno; i potenti sono in un’impasse; non visto, il reietto perfora il cerchio chiuso dei potenti e applica con successo le proprie doti al problema origine dell’impasse; nell’apice che conclude la sequenza, i potenti – e noi con loro, di nuovo – si accorgono finalmente delle doti del reietto e lo premiano: è stato il più bravo di tutti, il problema impossibile è stato risolto, è ora giusto accogliere quel reietto. Ebbene, il film è – letteralmente – un concatenamento di tali sequenze tra loro analoghe. Se ciascuna di esse è in sé un crescendo, l’insieme, al contrario, non ne garantisce alcuno al film. Ché il punto d’approdo di quest’ultimo – il primo astronauta statunitense in orbita, il recentemente scomparso John Glenn – non appare molto più significativo degli altri approdi intermedi che lo hanno preceduto; e che pure lo seguiranno, fuori da questo film: come raccontano le immancabili fotografie e didascalie in conclusione, la missione delle tre scienziate si sarebbe poi protratta fin sulla Luna e nello Space Shuttle.
“Hidden Figures”, conservatore sotto il profilo dell’impianto narrativo, lo è però innanzitutto a livello contenutistico e valoriale. A dispetto delle facili suggestioni suggerite dal tema, il film supporta di fatto il sistema dominante e le relative logiche atte ad includere (inglobare) le eccellenze (aliene) dentro quello stesso sistema perché ne sia fortificato. Le tre afroamericane vengono allora notate e integrate esclusivamente perché cervelli eccellenti che servono al sistema; e, di rimando, quest’ultimo non solo non viene mai messo in discussione, ma è anzi il valore assoluto alla luce del quale, soltanto, le tre protagoniste sentono di poter esistere.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.