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Il 3 ottobre arriva “Joker” nelle nostre sale tra polemiche e timori

Dopo la presentazione in concorso a Venezia 76, lo scorso 31 agosto, il trionfo con il Leone d’oro e l’anteprima di due giorni fa al Chinese Theatre di Los Angeles, il “Joker” di Todd Phillips con Joaquin Phoenix protagonista assoluto si prepara a… penetrare nelle nostre sale cinematografiche.

“Joker” racconta la storia del più famoso cattivo della saga “Batman”, Arthur Fleck, il (futuro) “Joker” (per il momento) soprannominato (dalla madre) “Happy”. Un nomignolo di tragica ironia esattamente come la risata isterica che assale Arthur nei momenti di tensione.
Egli è un attore comico fallito che per vivere fa il clown “su chiamata”, in attesa che prima o poi arrivi la grande occasione, magari in tv. Intanto, si esibisce davanti ai negozi per attirare i clienti, oppure negli ospedali per alleviare le degenze dei piccoli ammalati. Oltre alla madre, psicotica chiusa nell’appartamento che condivide con lui, i suoi unici referenti sono all’interno della compagnia dei pagliacci. Una nuova conoscenza potrebbe essere l’avvenente e giovane vicina di casa, ma il rapporto, ovviamente, non decolla. “Ovviamente” perché Arthur soffre di una grave forma di psicosi delirante. Divenuto ormai adulto, è da tempo in cura in un centro psichiatrico. Le sue condizioni sembrano stabili. Tuttavia, complici il crescente bullismo dei suoi concittadini innanzitutto giovani (conseguenza di un imbarbarimento delle condizioni sociali di Gotham City) e la parallela interruzione dei farmaci (a seguito dei tagli statali alla sanità), a poco a poco la situazione mentale di Arthur peggiora. Un’aggravante è ciò che ha ereditato dalla madre: non soltanto le violenze infantili e la malattia psichica, ma anche l’attrazione-avversione verso il miliardario Thomas Wayne, il padre del piccolo Bruce, futuro “Batman”, e in qualche modo legato ad Arthur…

Le polemiche emerse a Venezia hanno generato l’onda anomala che ieri l’altro ha investito Los Angeles. Passando per Aurora, e la strage che aveva sconvolto questa città del Colorado nel 2012, con l’assassinio di dodici persone alla prima de “Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno” da parte di uno squilibrato che sembrava travestito come un personaggio del film. Ebbene, la polemica – su cui ieri l’altro s’è espresso anche Robert De Niro, che in “Joker” interpreta il presentatore tv preso di mira da Arthur – consiste precisamente in questo: il film di Phillips, non tenendo le adeguate distanze dal protagonista né prevedendo un “lieto fine” con la sua punizione, rischia di sembrare una esaltazione della violenza. Una violenza che, in “Joker”, addirittura non si limita al singolo impazzito, ma si allarga a macchia d’olio coinvolgendo ed affascinando un’intera città in rivolta.

A mio avviso, questo tipo di atteggiamento, se può esser visto come il punto debole del film, ne è parimenti il punto di forza. Quello di Phillips è infatti un pedinamento finemente organizzato, costituito da situazioni che nulla hanno di “super-eroico” né sono figlie di una escalation spettacolare organizzata a tavolino. I tasselli della vita di Arthur che si susseguono nel film restituiscono, con andamento crescente e armonico insieme, un doppio degrado, quello psichico del protagonista e quello della città allo sbando in cui quegli vive. E, soprattutto del primo, compongono una ricognizione delle cause di rara completezza e profondità. Così, anche quando la violenza esplode, lo spettatore si sente sempre dentro un percorso psicologicamente credibile e perciò immediatamente partecipabile. Come succede nella scena secondo me più riuscita del film, quella della visita dei due pagliacci all’amico deviato, una scena che consigliamo di studiare nei dettagli e mandare a memoria, con la sua sorprendente e sopraffina alternanza di tensione, orrore, ironia e pietà. In una parola (ahinoi, spesso abusata): verità.

Per “Joker” s’è da più parti ricorso ad un’altra formula abusata: “spettacolarizzazione della violenza”. A mio avviso, tuttavia, è l’esatto contrario: quello che più spaventa del film è proprio l’assenza della spettacolarizzazione. Lo spettatore di “Joker”, cioè, non beneficia della comoda e rassicurante “intercapedine finzionale” che deriva dal parodistico, dall’iperbolico e dall’inverosimile. In “Joker” non c’è alcuna diavoleria tecnologica, le automobili non compiono balzi né volano i personaggi. Tutto appare dannatamente realistico, verrebbe da dire “clinico”. È precisamente questa prossimità al “ciò che potrebbe davvero accadere”, a turbare e far riflettere.

A ben guardare, invece, i punti deboli del film vanno ricercati altrove. Non tanti, a mio avviso, ma uno su tutti, tengo a segnalarlo, una macchia che sporca un quadro che poteva essere vicino al capolavoro. Per evitare spoiler, non rivelerò il contenuto ma soltanto la forma: una scellerata infrazione della verosimiglianza, l’esibizione di qualcosa che in realtà non è accaduto e pertanto ha poi bisogno di un’ancor più scellerata riproposizione delle medesime immagini nella versione “realmente accaduta”. Una macchia, insisto, “scellerata al quadrato”, perché, grazie a un (doppio) “di più” di cui non c’era affatto alcun bisogno (!), mina le fondamenta di un affascinante ritratto fondato sul realismo, una costruzione che per principio aveva felicemente abdicato alla – peraltro impossibile – messa-in-immagini degli evanescenti contenuti del delirio psicotico, attenendosi invece alla mera (!) superficie degli eventi e, soprattutto, del corpo martoriato e mutante del suo splendido protagonista.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.