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MINE – la guerra come pretesto. Recensione

13718763_811224845644299_5610117041886503707_n1Mike e Tommy sono due Marines in missione in Afghanistan. Sono seduti su un trespolo quando individuano il bersaglio da abbattere, ma Mike non riesce a sparare perchè la sua visuale viene compromessa da una terza persona. Gli uomini della cellula terroristica si accorgono però della presenza dei due soldati americani, che riescono a scappare nel deserto. Nelle vicinanze di un villaggio, Tommy mette accidentalmente il piede su un ordigno e salta in aria. Mike si rende conto di essere su un campo minato, nel momento in cui anche lui poggia il  piede su una mina. I soccorsi non arriveranno prima di cinquantadue ore. Mike sarà così protagonista di una vera e propria lotta per la sopravvivenza.

I registi esordienti Fabio Guaglione e Fabio Resinaro non se la cavano affatto male con Mine, film di guerra piuttosto atipico, capace di alternare un registro action a un registro drammatico,a tratti filosofico. Se la primissima parte della pellicola sembra infatti rimandare alle atmosfere spettacolari ed adrenaliniche del bellissimo American Sniper di Clint Eastwood, con i primi piani sul cecchino e il suo fucile pronto a colpire, il restante minutaggio è totalmente dedicato all’assolo del bravissimo Armie Hammer, chinato su una gamba sola, con un piede affondato nella luccicante sabbia del deserto e in preda a una crescente crisi esistenziale.

Mine ha un obiettivo specifico: cambiare le nostre prospettive abituali sul war-movie per trasportarci direttamente nelle menti – umane – dei soldati in guerra. La stessa guerra che in quest’opera appare come un’ allegoria della vita, delle sue tragedie e delle sue illusioni. L’istinto di sopravvivenza che permette a Mike di rimanere fermo su un esplosivo è sostanzialmente un pretesto per scoprirne i lati psicologici più oscuri e fragili. Ad accompagnare questo cecchino nei due giorni di attesa, non sono solo le terrificanti tempeste di sabbia, la fame o la sete, ma l’introspezione e il ricordo. Il ricordo dei suoi traumi familiari mai superati e di una intrinseca incapacità di proseguire serenamente il tortuoso cammino della vita. Una delle frasi più importanti, che arriva per bocca di un berbero è infatti “Devi andare avanti!”. Una frase ricorsiva, che si scatenerà prima in rassegnazione e poi in forza.

Mine è inoltre una prima opera interessante anche dal punto di vista tecnico, che denota una buona dimestichezza dei due registi nel gestire quello che è in fin dei conti un film solista. Le inquadrature rispecchiano sempre lo stato emozionale del protagonista e i campi lunghi danno l’idea di quanto Mike sia inerme e allo stesso tempo centrale nell’immensità delle distese desertiche. Un montaggio molto rapido, poi, aiuta enormemente ad alleviare quello che avrebbe potuto essere un esito lento e impacciato.

Mine è quindi un film positivo, che forse creerà scontento tra chi, in sala, vuole vivere solamente la spettacolarità violenta dei combattimenti a fuoco, ma affascinerà quasi certamente un pubblico più concentrato e capace di godere anche, e soprattutto, della forza delle immagini e delle suggestioni psicologiche.

Luca Di Dio