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“Parsifal” di Marco Filiberti: una potente “opera cinematografica”

“Parsifal”: una scena del film (www.marcofiliberti.it)
Parsifal interpretato da Matteo Munari (www.marcofiliberti.it)

Una nave chiamata Dedalus, attraccata in un porto immerso nella nebbia, sospeso tra una terra oscura e un orizzonte murato da nubi che per un istante lasciano intravedere il sole, di un pallido tramonto o di un’alba appena accennata. A guardia di quell’imbarcazione ci sono due marinai, Palamède e Cador. Che ricevono la visita di un ragazzo senza nome né origine, forse un puro, forse un impostore: slega la gomena che tiene ormeggiata la nave, ma Palamède lo redarguisce e la riannoda com’era. I tre sono raggiunti da altrettante prostitute, prima Elsa e Senta, infine Kundry, la loro capa, donna di invincibile magnetismo.
Quel sestetto evoca una dimensione ulteriore, un “oltre”: forse è un altro personaggio, forse è lo stesso ragazzo ingenuo. Il cui nome, scopriamo poi, è Parsifal. E, in effetti, un personaggio che può essere visto come il suo alter ego – passionale, violento – entra ben presto in scena. Ed è Parsifal stesso, messosi in marcia attraverso le colline senesi, a raggiungerlo dentro un’abbazia (quella di San Galgano): si tratta di un cavaliere medievale, Amfortas, assistito dai suoi compagni perché ferito mortalmente all’inguine. Quel momento si connette con l’inizio non solo per la presenza di Parsifal, ma anche per la visione avuta da Amfortas in delirio, una visione di perturbante sensualità: sulla pietra di fronte a lui, l’uomo vede distesa Kundry, in tutta la sua sinuosa e vibrante nudità.
Il viaggio di Parsifal prosegue, fino a… un bordello di inizio novecento, dove ritroviamo le prostitute e diversi clienti. Tra i quali c’è Felipe, che ha le medesime fattezze di Amfortas. Quel che accade là ci spiegherà le ragioni della ferita di quest’ultimo… del successivo peregrinare di Parsifal, del suo confronto con la figura cristica “attraverso se stesso” (forse il momento più intenso del film) e del ritorno ai luoghi iniziali, il porto e l’abbazia, stavolta accompagnato e pronto per un’impossibile e salvifica fusione finale.

“Parsifal”: l’attrice protagonista Diletta Masetti (www.marcofiliberti.it)


Non ho voluto svelare di più, della densa e multistratificata trama imbastita da Marco Filiberti, mente di rara vivacità e preparazione, capace di perseguire senza compromesso alcuno uno sguardo tanto inedito quanto prezioso nel panorama del nostro cinema. Perché parlare di “trama” è riduttivo: il suo “Parsifal” non può essere ingabbiato in una sinossi compiuta, a meno che questa non si limiti ai minimi dettagli e alla massima evocatività. Con ciò non voglio affatto far immaginare al lettore un “film-capriccio”, una disinvolta miscellanea di sensazioni e richiami operistici (Richard Wagner in primis), letterari e teatrali. Tutt’altro, “Parsifal” è un’“opera cinematografica” (come sottolinea l’autore nei titoli iniziali e finali), poetica e insieme di matematica precisione.

“Parsifal”: una scena del film (www.marcofiliberti.it)


Sì, perché la dimensione artistica è radicalmente potenziata da uno studio e una impalcatura di estremo rigore.
A partire dalla struttura complessiva, la quale – da quel poco esposto – si capisce essere, più che “circolare”, “a spirale”, con una partenza e un ritorno “altro” al punto da cui tutto ha avuto scaturigine (unico percorso, d’altronde, per sperare di “lambire” il “Graal”). Proseguendo con i personaggi, che si sdoppiano nei corpi e nelle dimensioni temporali, dialogano con gli altri e con se stessi, si fondono mantenendo la propria unicità. E così le scene, virate – minimamente e proficuamente – ognuna su dominanti specifiche, che connotano il momento mettendo in vivido dialogo – diretto – personaggi ed ambiente e – a distanza – le scene che precedono e quelle che seguono.

“Parsifal”: l’autore ed interprete Marco Filiberti (www.marcofiliberti.it)


Filiberti compie un miracolo espanso: porta al massimo livello la recitazione degli attori da lui stesso formati all’interno delle “Vie del Teatro in Terra di Siena”, tanto che la compenetrazione di interprete e personaggio appare totale (su tutti, oltre ad Amfortas/Felipe-Filiberti, Parsifal-Matteo Munari e Kundry-Diletta Masetti, i ruoli con il più ampio ventaglio di sfumature, coperto da tutti e tre gli attori in maniera eccelsa dentro una misura che è potenza assoluta; ma vogliamo tacere della contagiosa freschezza della bravissima Elsa-Zoe Zolferino?); genera un’opera che si pone da subito come antitesi di qualsiasi altra proposta nelle nostre sale o piattaforme; mantiene – complici innanzitutto la fotografia di Mauro Toscano, le scenografie di Livia Borgognoni, i costumi di Daniele Gelsi e le musiche di Paolo Marzocchi – una qualità tecnica internazionale, che non fa percepire in nessun istante il budget necessariamente non stellare.
Il nostro auspicio, adesso, è uno solo: che questo “Parsifal”, pur potendo esserlo a tutti gli effetti, non sia un’opera-testamento, una summa senza un “oltre”. Ma che, esattamente come la scena iniziale al porto, dalla perfezione “circoscritta” ne generi un’altra “diffusa”.

“Parsifal”: una scena del film (www.marcofiliberti.it)
Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.