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“Rifkin’s Festival”: Allen esalta il cinema europeo con una galleria di citazioni

Buon compleanno Woody Allen

“Rifkin’s Festival”: Allen esalta il cinema europeo con una galleria di citazioni

di Eugenio Fatigante

Rifkin’s Festival, Woody Allen

C’è il cinema di Hollywood, e poi c’è « quello europeo che ha reso il cinema adulto». E’ una summa del pensiero di Woody Allen questa battuta, tra le più significative dell’ultima opera – la 48esima – del regista ormai più europeo che americano, che ha per titolo “Rifkin’s festival”, nelle sale da 6 maggio. Vera antologia alleniana, il film poggia sulle due chiavi principali della sua filmografia: la psicanalisi e il “film nel film”, non ai livelli del capolavoro “Broadway Danny Rose”, ma pur sempre con effetti più che godibili. Anzi, stavolta l’oggetto è il “film nel festival” perché l’azione, raccontata dal protagonista durante una seduta di analisi, si svolge appunto al festival cinematografico di San Sebastian, in Spagna (dove lo scorso settembre ci fu il debutto mondiale di quest’opera che, vista la parabola di Allen – minata dalle accuse della figlia adottiva Dylan -, fatica a trovare una distribuzione Usa). Quei festival che «non sono più quelli di una volta», altra battuta che evidenzia il rimpianto dell’anziano cineasta.
Tra cocktail ripetitivi e conferenze stampa, l’azione narra i giorni festivalieri di Mort Rifkin (Wallace Shawn, perfetto alter ego di Allen, buffo e narciso), già professore di storia del cinema – che ricorda come il periodo migliore della sua vita – alle prese con un romanzo che non scriverà mai perché dev’essere bello come uno di Dostoevskij: Mort accompagna la moglie Sue (Gina Gershon), donna troppo bella e piena di vita per lui e indaffarata addetta stampa di cinema. Nella città basca di mare lei è al lavoro per Philippe, giovane regista suo cliente, “non solo” professionale. Mort/Allen, in parte estraneo all’ambiente, non perde così occasione per ridicolizzare un mondo che spesso coltiva il vizio di sentirsi più importante di quel che è; mentre un lieve problema di cuore – ecco l’ipocondria, altro carattere tipico alleniano – lo porta a ricorrere alla dottoressa spagnola Rojas, anch’ella giovane e con affanni sentimentali, con cui ritrova quell’affinità, anche culturale, che ormai fatica a scorgere con la consorte. In un gioco di ironie che si concentrano sulla figura di Philippe, pretenzioso regista che pensa addirittura con un film di trovare la soluzione ai contrasti israelo-palestinesi.

 

Un cast in buona parte europeo, che riflette anche le difficoltà di Allen a trovare ora star Usa disposte a lavorare con lui dopo che alcune – vedi Kate Winslet – hanno dichiarato di essersene pentite. La trama diventa anche l’occasione, per Allen, per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, come il messaggio agli autori europei che si lasciano sedurre dagli studios Usa e non coltivano l’eredità dei maestri europei. E’ l’altro filone del film (in cui Allen rinnova il binomio con Vittorio Storaro direttore della fotografia), pieno di riferimenti nei sogni – rigorosamente in bianco e nero – del protagonista Rifkin, da “Jules e Jim” di Truffaut a “L’angelo sterminatore” di Bunuel fino a “Quarto potere” di Welles (usato per accennare all’infanzia di Rifkin), e poi ancora Fellini, Bergman e Godard. Una vera dichiarazione d’amore per il cinema, che è anche uno dei godimenti di questo film. Fino al culmine nella citazione bergmaniana della partita a scacchi con la Morte (interpretata da Christoph Waltz, unica vera star) che, stanca del suo compito, al contrario si congeda dispensando consigli per vivere più a lungo. E’ una galleria portata fin quasi a una certa ripetitività, esibita appunto per coltivare quella nostalgia per un cinema che non c’è più. Specchio di quei tempi nei quali l’85enne Allen fatica a ritrovarsi, pur continuando a offrire al pubblico delle produzioni che – a volte più, a volte meno riuscite – restano sempre piccole gemme.