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SONG TO SONG, di Terrence Malick

Song to Song, opus n.9 del maestro Terrence Malick (La sottile linea rossa, To the Wonder, I giorni del cielo) è un poema sui destini incrociati di un produttore discografico, una cameriera e due aspiranti musicisti. Un film potente, che richiama attraverso una struttura caotica e a tratti anti-narrativa, un clima di schiacciante perdizione. Ossessioni, tradimenti, ricerca del proprio io della propria sessualità sono le caselle che vanno a costruire, modellandosi, questo mosaico cinematografico di pervasivo fascino.

Come al suo solito, il perfezionista riservato Malick genera fiumi di immagini che non necessitano di torrenti di parole. Il cinema sembra ritornare, con questo artista complesso e gigantesco, alla sua vocazione originaria: quella di essere guardato, percepito e talvolta subìto proprio tramite le inquadrature. Le immancabili voci fuori campo, che lasciano un risicato spazio ai dialoghi tra i personaggi, vanno coagulandosi con movimenti di macchina persecutorii e soffocanti. Basti pensare a quanto sovente Malick usi il grandangolo ricreando una realtà dissonante e conturbante, o al montaggio schizofrenico che ben si accosta all’inquietudine dei protagonisti. E’ qui che si manifesta, forse, il suo tocco indistinguibile, unico, lirico. Le immagini sono il mezzo col quale si passa – non di rado attraverso ellissi temporali- da momenti di forte stasi e disperazione ad ampie fasi di respiro.

I corpi diretti da Malick, espressione delle loro stesse anime gioiose e tormentate, si sfiorano, si cercano e violentemente si attanagliano durante tutto il film. Sembra quasi che gli sguardi lanciati, le mani intrecciate, ma anche le parole non dette o le mosse ritirate, non siano altro che un’allegoria di quanto -per citare il personaggio di Rooney Mara- l’essere umano sia alla ricerca, in maniera smaniosa, della “luce”. La stessa luce in cui sono avvolti, in una lettura mai didascalica ma casomai misteriosa, gli ambienti nel quale il cast si muove.

Song to Song, a conti fatti, è quindi un’opera dove lo stile di Malick è forte e manifesto. In termini di poetica, anche se il regista di Ottawa pare essersi ormai diretto verso altri mondi e altri contesti di riferimento rispetto ai suoi film precedenti, appare altresì chiaro che l’interesse centrale del suo cinema è sempre quello di scandagliare, esplorare l’anima dell’uomo, così profonda e così vorticosa.

Luca Di Dio