“Bones and all” di Luca Guadagnino: l’amore che mangia tutto…
Luca Guadagnino prosegue il suo viaggio nei meandri dell’amore, motore eterno dell’agire umano, di quell’amore che, quando è vissuto con trasporto totale, ti spolpa “fino all’osso”, fino alle “ossa e tutto”, come da titolo (“Bones and all”) di quest’ultimo film del 51enne regista e sceneggiatore palermitano, ormai una certezza del panorama cinematografico nazionale. Stavolta, abbandonata la provincia del Nord Italia di “Chiamami col tuo nome”, Guadagnino si è trasferito armi e bagagli negli States per la sua prima opera interamente girata lì: le placide campagne sono state sostituite da orizzonti immensi, campi secchi e periferie desolate, tipiche di certi paesaggi americani. Periferie geografiche e anche esistenziali, perché questo tipico “road movie” senza tempo di ciò parla. Le ossa di cui sopra non sono casuali: da esse all’altro tema del film – l’amore “cannibale” – il passo è breve, come corto lo è però quello che separa una bella pellicola da un film anche sapienziale – nelle interpretazioni, nel montaggio, nelle musiche –, ma alla fine riuscito a metà.
La metafora è evidente nell’immaginifico universo filmico di Guadagnino: il corpo dell’altra/o da amare, fino al volerlo mangiare a morsi, anche nel rapporto genitori-figli (Marven è in cerca della madre mai conosciuta, mentre Lee rimpiange il calore della famiglia lasciata), come linfa vitale per affrontare le difficoltà legate alla «solitudine dell’esistere e, contemporaneamente, al desiderio di spezzare questa solitudine attraverso l’essere guidati da un altro», come ha spiegato Guadagnino. E metafora anche dell’emarginazione in cui sempre più si dibattono i giovanissimi. Il pretesto, d’altronde, ha una tradizione letteraria, anche consolidata, che affonda in Dante (il cuore dato in pasto alla donna amata della “Vita Nuova”) e Boccaccio. Marven e Lee (e Sully) si dibattono, si cercano e si riconoscono con la bocca sporca di sangue umano, inebriandosi del loro odore, quell’odore che li porta ad annusarsi e a trovarsi a distanza di centinaia di metri, anche nelle tenebre, anche nello squallore di un prato notturno, quasi come dei vampiri (evidente il lascito di “Suspiria”, film del 2018 di Guadagnino, bravo nello strizzare l’occhio magari ai più giovani senza cadere comunque nel trash di certe saghe del genere). Ma quando il pretesto finisce comunque col prevalere sulla narrazione, ecco che il film incespica e lascia perplessi. Tutto – ripeto – è ben confezionato e ci si lascia coinvolgere in fondo dalle vicende dei due adolescenti. Se poi ci si ritrova però ad aspettare la prossima scena granguignolesca più che lo sviluppo futuro del racconto apologetico sulla forza (ma anche le pecche) dell’amore che abbatte i muri di solitudine, ecco che può essere certo un limite dello spettatore, ma forse anche l’autore dovrebbe porsi qualche domanda sulle intenzioni (tradite) di una trovata che alla lunga allontana da quella che dovrebbe essere la “carne viva” (per restare in tema) della materia trattata.