Recensioni Film

“Il quaderno nero dell’amore”: nelle nostre sale il film tratto dal best seller

Presentato ieri in una serata ad inviti al Cinema Aquila di Roma “Il quaderno nero dell’amore” di Marilù S. Manzini, ora nelle nostre sale.

La regista Marilù S. Manzini
(da premioceleste.it)



Con la serafica supervisione del proprio psicanalista (un Pier Maria Cecchini sornione ed efficace) MaVi (Maria Vittoria nel libro da cui è tratto il film), giovane artista e collezionista di odori (un’intensa e magnetica Emilia Verginelli), organizza un “gioco a tre” con due amici, l’“eterna aspirante attrice” Paola (una Martina Palmitesta di struggente fulgore) e il “novello aspirante imprenditore” Riccardo, amatore onnivoro e compulsivo (un convincente, ambiguo e perturbante Michele Cesari): i partecipanti sono chiamati ad annotare le proprie esperienze sessuali su un quaderno dalla copertina nera. Tra le dieci regole dettate da MaVi ci sono la massima trasparenza e la disponibilità a rispondere a qualsiasi domanda rivolta dagli altri partecipanti e a raccontare i minimi dettagli (quelli che si possono soltanto “scrivere”, non “dire”).

Le uniche pagine del “quaderno indicibile” ad essere viste (lette) nel film sono quelle su cui MaVi scrive via via il decalogo e che scandiscono i capitoli del racconto; i vari incontri sessuali dei tre partecipanti, invece, sono (ri)vissuti dagli stessi e dunque (ri)messi in scena dalla regista.
Sì, perché Marilù S. Manzini, per la propria opera prima – prodotta da Point Media e vincitrice dell’International Women’s Film Festival 2020 –, sceglie il registro della sospensione, del distanziamento, del raffreddamento e della ricostruzione, se è vero che gran parte del film si svolge dentro un’unica location teatrale “mutante”, un palcoscenico che ora è cucina, ora salotto, ora camera da letto, ora stanza d’ospedale, frammenti di un “discorso amoroso impossibile” cui si intervallano riprese aeree del quartiere Isola di Milano. In quegli astratti interni, cambiano le luci, i colori, l’arredamento e talvolta (come nell’incontro di MaVi e Riccardo con il muto bel tenebroso Beppe Convertini) anche i fondali, grazie all’applicazione di green screen e computer grafica.

L’attrice Marica Pace alla prima al Cinema Aquila
(foto di Massimo Nardin)



Se Paola agisce solitaria (per liberarsi dalla castrante presenza della madre, una pungente e bravissima Carmen Giardina), i confronti tra MaVi e Riccardo si susseguono e accrescono la sintonia tra i due. Ciò che accomuna tutti e tre sono però il disincanto, la deriva e il senso di fallimento: gli incontri sessuali chiamano in causa affascinanti sconosciuti e “primi amori” non ancora consumati, agognati pigmalioni e partner dello stesso sesso… si fanno via via più intensi e stravaganti – su tutti, quello con la danzatrice-sessuologa irresistibilmente logorroica, interpretata dalla sensuale e solare Marica Pace, la più gradita sorpresa del film assieme alla protagonista Verginelli –. Tuttavia le cifre della narrazione sono la ripetizione fine a se stessa, il logorante circolo vizioso e il sesso come forma di esasperazione e autolesionismo. I corpi sono nudi, ma le maschere e la finzione sono (volutamente) pesanti, impenetrabili, asfissianti. Ciononostante, a poco a poco, le superfici si crepano e la luce di un’inaspettata veridicità riesce finalmente a squarciare il palcoscenico…

La copertina del libro
(da bur.rizzolilibri.it)



Manzini, scrittrice di successo, pittrice, scultrice, fotografa e giornalista, ha messo in suoni ed immagini uno dei propri romanzi, “Il quaderno nero dell’amore”, pubblicato da Rizzoli undici anni prima (2007) delle riprese del film (2018) e divenuto subito un caso letterario grazie a più di centomila copie vendute. Per accompagnarla nella scrittura della sceneggiatura, Manzini ha voluto accanto a sé Francesca Demichelis e Luca Biglione. Ma è l’apporto di un veterano quale Fabio Zamarion alla direzione della fotografia il valore aggiunto del film.

La scrittura, infatti, è “a tre mani” come il nero quaderno ma appare acerba e abbozzata in molte parti del film, i dialoghi sono spesso didascalici e inverosimili, veicoli di trite ovvietà più che di urgenti verità. Naturalmente, si intuisce in ciò il coraggioso tentativo degli autori – prezioso tanto più oggi, in un panorama audiovisivo sempre più standardizzato, accomodante, consumistico e narcotizzante – di provocare, di decontestualizzare gesti e parole, di strappare la quotidianità e portare la riflessione – guardando magari a cinematografie nordiche quali quella di Nicolas Winding Refn – ad un livello superiore, fecondamente disturbante, iper- o meta-reale. Tale tentativo però, pur apprezzabile, rimane tale, a metà strada – come i protagonisti – tra un mal digerito sensuale e un mal costruito astratto, tra il “luogo altro” e il “luogo comune”.

A colmare le lacune dell’impianto narrativo ci pensa la fotografia algida e densa, raggelante e contrastata, “elettrica” e sotterraneamente calda di Zamarion. Il quale (oltre ad aver lavorato per Corso Salani, Giovanni Veronesi, Francesca Archibugi, Roberta Torre, Giulio Base, Gennaro Nunziante e Checco Zalone) nel proprio curriculum vanta la fotografia per due tra i maestri del nostro cinema più attenti alla costruzione e alla potenza dell’immagine: Giuseppe Tornatore e Ferzan Özpetek.

Mi sento quindi, in conclusione, di rivolgere a Manzini tre auspici: un’opera seconda tratta da un altro suo libro; la collaborazione con uno sceneggiatore di peso, capace di stravolgere beneficamente la stessa scrittura di partenza; e la conferma di Zamarion alla direzione della fotografia.