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LUCA BARBAROSSA, COME DENTRO UN FILM E 60 ANNI DA SALVARE

Qualche giorno fa ha festeggiato i settant’anni il ‘principe’, Francesco De Gregori. Oggi tocca ad un altro cantautore della ‘scuola romana’ tagliare il traguardo dei sessanta, Luca Barbarossa. Lo fa regalandosi e regalandoci un libro Non perderti niente appena pubblicato con Mondadori. Un romanzo volutamente autobiografico dove l’artista ripercorre il suo lungo tratto di strada, dalle performance a Piazza Navona sognando Bob Dylan a quelle di Sanremo dove arrivò a vincere nel 1992 con Portami a ballare, canzone dedicata alla mamma dove le confessava come “questa vita mi fa tremare e sono sempre i sentimenti i primi a dover pagare”.

Già i sentimenti, perché Luca Barbarossa è stato, tra gli anni Ottanta e Novanta, un cantastorie come pochi dove “sentimento” non vuol dire necessariamente “sentimentale” anzi, al contrario, la sua musica è stata anche una forte testimonianza sociale (Al di là del muro, Mandela) e a volte migliore di un trattato di sociologia, basti ricordare Yuppies che raccontava proprio quella generazione di figli di papà, quella che “la notte puoi trovarli in discoteca sorridenti, con la bottiglia nel secchiello e delle donne appariscenti”. Quella, per intenderci, di quell’Italia “un po’ americana: sempre meno contadini, sempre più figli di puttana”.

In quel buon ventennio, tra gli anni Ottanta e Novanta, le parole erano importanti, come ci ricordava ossessivamente Nanni Moretti in Palombella Rossa e sulla scena cantautorale il duello era tra due Luca: il primo Barbarossa, l’altro Carboni che rappresentava la ‘scuola bolognese’, un po’ delfino di Lucio Dalla come potremmo dire di Barbarossa di De Gregori. Le parole, si diceva, erano importanti, i testi non erano un diluvio di frasi fatte come quelli dei trapper di oggi ma erano una sorta di maieutica, servivano per tirare fuori i problemi di una generazione.

Così, ad esempio, Luca Carboni scrisse nel 1987 una straordinaria Silvia lo sai denunciando il dramma della tossicodipendenza e Barbarossa l’anno successivo compose l’Amore rubato portando a Sanremo il tema dello stupro, quasi un’eresia allora mentre oggi addirittura il fenomeno si è ingigantito con episodi sempre più frequenti di femminicidio.

Certo, di tempo ne è passato. Barbarossa è cresciuto, si è imborghesito, gioca a tennis (il suo mito è stato Adriano Panatta) è stato anche un bravo centravanti nella nazionale cantanti, tifa per la ‘Magica’ e da più di un lustro conduce su Rai Radio2, ogni settimana dal lunedì al venerdì, una trasmissione frizzante come il Social Club con l’ottima spalla di Andrea Perroni e spesso le improvvisate dell’amico Neri Marcorè.

In questi ultimi cinque anni un solo disco all’attivo, seppur importante perché figlio di un progetto, quel Roma è de tutti, album di 11 canzoni (con alcune chicche come

Tutti Fenomeni e Lallabai) interamente cantante in romanesco. Sono lontani i tempi del cineforum alla sezione della Fgci di Mentana, dell’amore per Sophie, ragazza francese eroinomane e che lui pensava di salvare dalla tossicodipendenza con il suo amore, di Via Margutta e di quella Roma spogliata (in verità Roma puttana) che lo fece conoscere al grande pubblico nel 1982, quasi quarant’anni fa.

Eppure siamo certi che quando tutte le mattine con la sua smart bianca infila il traffico di Roma da Monteverde agli studi Rai di via Asiago il Barbarossa di oggi, sessantenne, nel fare un bilancio delle cose da salvare (sua altra straordinaria canzone) non avrebbe da rimproverare nulla a quell’adolescente che sognava il successo, di tornare tra i ragazzi del suo quartiere con una macchina americana un po’ come dentro un film. Quel ragazzo che la sua prima fidanzatina chiamava Castoro e che da grande avrebbe trovato magari un lavoro che lo avrebbe annoiato e, forse, con un po’ di coraggio un altro che gli sarebbe piaciuto. “Ma non buttarti via – gli avrebbe ricordato Barbarossa – la vita non è tutta qua. Ci vuole più poesia, ci vuole libertà”.