News

Orso d’Oro all’esordiente Adina Pintilie per “Touch Me Not”

“Touch Me Not” Orso d’Oro a Berlino 68

L’opera prima sperimentale “Touch Me Not” della regista romena Adina Pintilie vince l’Orso d’Oro e il premio per il Miglior esordio alla 68. Berlinale.
Verdetto che ha lasciato sbigottita buona parte della critica internazionale, ma che alcuni ritenevano plausibile. Mi piace rileggere adesso l’articolo de “Il Sole 24 Ore online” pubblicato prima della premiazione: tra i molti titoli citati, indicati quali probabili vincitori o possibili sorprese, è stato totalmente ignorato proprio il doppio vincitore romeno. Da parte mia, due giorni fa lo inserivo nella mia personale top-3.
Film furbo, sconclusionato, superficiale, ingenuo… Può essere, ma innanzitutto opera de-stabilizzante. Fin dalle prime immagini: forse tratti in inganno da quella schiena femminile nuda in locandina, che sembrava preannunciare un’opera esplicitamente erotica e tradizionalmente trasgressiva… alcuni giornalisti all’anteprima stampa hanno manifestato reazioni incontrollate: tra sospiri, mugugni e colpi di tosse, è presto scoppiato un battibecco tra un giornalista delle prime file e un altro poco più indietro. Le loro reciproche offese, scatenate dalla crassa risata del primo apostrofata dal secondo, hanno sovrastato il sonoro per pesanti secondi, tra l’imbarazzo e lo sconcerto della sala gremita. Un tipo di reazione cui, sino a mercoledì scorso, non mi era mai capitato di assistere…
Ma il film intanto andava avanti, coll’incedere sonnambolico e inquieto, lento ma inarrestabile, di Laura, la sua protagonista cinquantenne, pedinata dalla giovane autrice romena in un’alternanza di documentario e finzione, di narrazione e confessione in camera, di preparato e d’inatteso. Un giuoco di specchi che coinvolge (e avvicina a poco a poco fino al “touch” conclusivo) un terzo, un giovane uomo islandese completamente glabro (il Tómas Lemarquis di “Blade Runner 2049”), tormentato dalla fine della storia con una ragazza che ora si concede in consessi sadomaso.
Il problema della protagonista Laura (e l’origine del titolo) risiede nel non riuscire ad entrare in contatto fisico con l’altro sesso (e sentimentale con se stessa); gli altri due, la regista e l’islandese, paiono segnati da un’impasse analoga. La macchina da presa-specchio e l’inesausto scambio dei piani di visione aiuteranno tutti e tre ad ammettere le proprie fragilità e a liberarsi da quelle invisibili catene.
Compagni di viaggio, in quadri che si intersecano l’uno nell’altro (orgiasticamente, proprio come nell’ultima orgia) approfondendo ogni volta l’indagine dentro e fuori di sé, sono figure opposte a quelle ritenute tradizionalmente cinegeniche e (s)oggetti di desiderio. Sono uomini e donne al limite, prostituti tatuati dell’Est, assistenti obese, anziani transessuali… Tra tutti, spicca un piccolo, giovane disabile. “Disabile”, appunto, ci vien da dire per farci capire (per possedere nel concetto), oppure “spastico”, deforme se non “diversamente abile”… È questa, la barriera concettuale che, al primo impatto, segnala la “diversità” e rende disturbante o persino fastidioso quest’uomo all’occhio dello spettatore assuefatto alla standardizzata e standardizzante fotogenia-selfie e alla gradevolezza del suono digitalizzato. Qui, al contrario, i tratti del volto e del corpo sono spigolosi, eccessivi, “fuori canone”, e la voce è impastata da catarro e saliva, che, incuranti di qualunque convenienza estetica, escono di tanto in tanto dalla sua bocca protesa… Eppure, a poco a poco, quest’alieno impossibile da collocare diventa co-protagonista a tutti gli effetti: senz’accorgercene, sorvoliamo su quel che ritenevamo sgraziato e ci concentriamo sul calore del suo sguardo e della sua voce, sull’invincibile necessità del suo desiderio.
E così, alla fine del percorso in cui ci guida Pintilie, tragitto tortuoso, disarmonico e allo stesso tempo irresistibile, troviamo (nei personaggi e in noi stessi) quella cellula universale che ci accomuna oltre ogni distinzione e pre-giudizio. L’espressione “Touch me not” poggia infatti su un’intima contraddizione, essendo essa proibizione e invito insieme, non “Don’t touch me” bensì “Toccami – no”; ma può celare altresì l’auspicio ad un “tocco – altro”: non tanto (non più) quello del possesso normalizzante (della violenza, della penetrazione, del concetto), ma il tocco leggero e potentissimo di uno sguardo (finalmente) disarmato e dunque capace, semplicemente, di ri-conoscere l’altro e in quest’ultimo riconoscer-si.
Ecco quindi che Laura, nell’inquadratura che chiude il film, può liberar-si, lasciar-si andare e conceder-si al cristallino sguardo della regista, che coincide (ormai) col nostro e con il suo.