Recensioni Film

SICILIAN GHOST STORY di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia. Quando i fantasmi sono più potenti della malvagità umana

Luna e Giuseppe sono compagni di scuola media. L’età è quella, fragile e sconvolgente, in cui si passa dalla fanciullezza all’adolescenza, in cui si percepisce un nuovo corpo e si viene investiti da emozioni sconosciute. È l’età dei corteggiamenti impacciati e del primo bacio. Uno solo, quello tra Luna e Giuseppe, ma che li legherà per sempre dentro un flusso ininterrotto di flash comunicativi a distanza, dalle torce elettriche usate a mo’ di telegrafo (per il tramite dell’amica del cuore) alle visioni oniriche che sconfinano nella realtà indirizzando il percorso dei due giovani protagonisti. Le cui strade terrene la malavita dei pentiti e dei sequestri separerà per sempre. Ma troppo tardi: loro sono ormai un corpo unico, che l’omertà, il lassismo e la perfidia degli adulti mai potranno sfiorare.

Come i destini dei due ragazzi, pure la trama di “Sicilian Ghost Story” (che ieri ha inaugurato la Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2017 ed è stato proiettato in contemporanea al cinema Quattro Fontane di Roma) si svolge su un piano parallelo alla deprimente realtà, ridotta – questa sì – a pallidi fantasmi, zombi esangui che si trascinano nelle viscere della terra, tra loculi-saune e celle-bunker. L’autentica “Story” si snoda altrove, nel sogno, nella visione, nella premonizione, cammina sul filo di una speranza in grado di ribaltare la banalità del male, e i suoi eroi sono gli unici “Ghost” rivolti al sole di un pieno avvenire.
Una Sicilia anomala, quella immortalata da Antonio Piazza e Fabio Grassadonia. Complice la satura, simmetrica e deformante fotografia di Luca Bigazzi – che dimostra una volta di più la capacità di adattare la propria tecnica sopraffina alle esigenze dei vari autori, potenziandole -, i due registi trasfigurano l’isola trasformandola nella terra perfetta per una fiaba nera dai toni nordici: diametralmente opposta a quella sin qui raccontataci al cinema, questa Sicilia di metà anni Novanta rivela boschi labirintici, rocce attraversate da corsi d’acqua sotterranei, animali selvaggi custodi della tragedia dei due piccoli eroi. Ed è proprio la natura il vero protagonista del film, il tessuto connettivo su cui si muovono i faticosi passi dei personaggi. Lo dimostrano non soltanto i momenti di visione aliena di possibili animali-spia, ma il punto di vista generalmente adottato, sovente basso e rivolto verso l’alto, con focali grandangolari che allargano la scena, abbattono i confini e individuano un nuovo orizzonte, non più davanti a noi ma sopra, con le fitte cime degli alberi che si raggruppano e si rivolgono al cielo infinito.