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Lars von Trier è tornato al Festival di Cannes: quando vedremo il suo nuovo film-shock in Italia?

Lars Von Trier "The House That Jack Built"
Lars Von Trier “The House That Jack Built”

Lars von Trier è tornato al Festival di Cannes esattamente sette anni dopo la sua estromissione quale “persona non grata”, avvenuta durante l’edizione 2011 a seguito delle dichiarazioni da lui rilasciate nella conferenza stampa per “Melancholia”, il suo film in concorso quell’anno. A sancire il definitivo superamento di quell’episodio, l’abbraccio con il Delegato Generale del Festival Thierry Frémaux alla proiezione di Jack Built”, l’ultima fatica del regista danese, presentata sulla Croisette fuori concorso.
Von Trier, al di là delle parole a suo tempo dette e poi ritrattate, sul piano filmico ha dimostrato una coerenza estrema e pungente con la propria poetica. Acuendo anzi l’inclinazione all’irridente dissacrazione. La sua nuova storia, infatti, guarda a Jack lo squartatore e ai suoi emali. Protagonista è un eccellente Matt Dillon, capace di restituire la sfaccettata e contraddittoria personalità di questo assassino seriale, vittima della sua stessa intelligenza e sospeso tra nevrosi ossessive e megalomane spietatezza. Questo ingegnere che avrebbe voluto essere architetto sublima questa frustrazione nel modo più nefasto, cominciando con una prima, casuale vittima (la donna dalle fatali tendenze autolesioniste disegnata da una strepitosa Uma Thurman) e finendo con lo stipare un corpo dietro l’altro nella cella frigo di casa. Un’allucinante collezione volta a preparare la grande opera conclusiva, quella che coronerà la folle carriera di Jack: una casa – appunto – composta di soli cadaveri rivisitati ad arte.
Una (letterale) discesa agli inferi, quella di Lars von Trier, ancora una volta scandita in capitoli e – esattamente come in “Nymph()maniac” – strutturata in forma di spietata autoanalisi, un dialogo (qui immaginario) tra il protagonista e una voce della coscienza che assume via via caratteri diversi, confidente, provocatore, tentatore, oppositore, giudice, angelo custode… Il “Verge” interpretato da un magnifico Bruno Ganz può essere visto come la riproposizione e, insieme, il capovolgimento di quel che Virgilio fu per Dante, soprattutto considerando il momento della sua materializzazione e il conseguente finale del film. In cui l’inevitabile punizione per Jack giunge, ma in una forma davvero inaspettata, che sembra persino sconfessare il crudo realismo sin là perseguito dal regista.
Lars von Trier, infatti, mette in immagini proprio ciò che l’etica dell’audiovisivo bolla come non-filmabile: arti di animaletti mozzati, teste di fanciullo fatte saltare in aria, seni asportati e sbattuti sul parabrezza di una volante. Sì perché è l’impunibilità del male, quello più folle e paradossalmente trasparente e ingenuo, ciò che ha affascinato von Trier. Il quale, come in “Nymph()maniac”, fa vivere a protagonista e spettatore una escalation (in apparenza) senza senso, un gioco all’accumulo e al massacro che non sembra concepire punto d’arresto.
La sagra di atrocità commesse da Jack è tuttavia costantemente percorsa dalla glaciale (auto)ironia del regista, che pedina il suo personaggio come un investigatore, senza giudicarlo ma anzi visceralmente affascinato dalle impensabili contraddizioni insite nel suo animo e, soprattutto, nella realtà che lo circonda, che può persino essere vista come diabolicamente connivente.
Un’autoironia al quadrato, se è vero che gli ostracizzati riferimenti al totalitarismo, cacciati sette anni fa dalla finestra della sala conferenze, sono rientrati quest’anno dalla porta centrale del Grand Auditorium Louis Lumière, proiettati sul grande schermo sotto forma di racconto cinematografico in uno dei capitoli in cui “Jack-von Trier” analizza se stesso e i propri fantasmi.
Quando vedremo il film nelle nostre sale? Per ora si sa che a fine novembre uscirà nella madrepatria del regista. E che, alla distribuzione italiana, ci penserà Videa, la stessa che diffonderà nelle nostre sale “Suspiria”, il nuovo film di Luca Guadagnino.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.