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“Sanctuary” di Zachary Wigon: un perturbante gioco sadomaso che fa ritrovare se stessi

La locandina del film ( iwonderpictures.com )

Dopo essere stato presentato in concorso all’ultima Festa del Cinema di Roma, esce oggi nelle nostre sale, distribuito da I Wonder Pictures, “Sanctuary” del regista newyorkese Zachary Wigon, classe 1986, al suo secondo lungometraggio dopo “The Heart Machine” del 2014.

L’elegante suite di un albergo, il rettangolo di una finestra sulla notte d’una metropoli americana puntellata dalle luci dei grattacieli. Suoni ovattati dall’esterno, silenzio all’interno. Un bell’uomo poco più che trentenne, Hal, in attesa seduto sul divano con una scatoletta cubica tra le mani. Squilla il campanello: è Rebecca, l’avvenente ragazza che Hal aspettava e fa accomodare. Sembra un’avvocatessa incaricata di indagare su di lui, per valutarne la statura morale e la tenuta psicologica in vista dell’importante incarico imprenditoriale di cui egli sta per essere investito. Le domande del questionario proposto da Rebecca passano dalle generiche alle personali, fino alle intime…
Ma si tratta di un gioco: l’incontro e quello stesso questionario seguono un copione ben preciso, inventato da Hal e inviato via mail a Rebecca. Costei infatti è una escort dominatrix, e Hal, novello orfano di padre ed erede designato di un impero alberghiero di lusso, si eccita interpretando proprio il ruolo opposto a quello richiesto dalla sua (imminente) posizione: essere lo schiavo inerme di una donna combattiva e d’umili origini, disposto a fare tutto quello che lei gli dice e che lui stesso ha inserito prima nel canovaccio. Ma quest’ultimo scricchiola presto, e viene superato dagli eventi. Conclusa infatti la recita ideata dall’uomo e consumata sul divano la cena ordinata da lui all’inizio, Hal congeda Rebecca: la carica dirigenziale che sta per ricoprire non ammette un “dietro le quinte” del genere, l’interiorità – come ripeteva il potente padre – deve coincidere con l’esteriorità. La ragazza accetta sorpresa e infastidita quella decisione.
Una volta nel corridoio dell’hotel, però, viene attirata dal quadretto familiare appeso accanto all’ascensore che dovrebbe portarla via da lì. Soprattutto, ad accenderle la mente, è l’espressione di quell’Hal ritratto accanto ai genitori, un timido adolescente che venera e teme un padre miliardario tremendamente sicuro di sé. Rebecca non si accontenta perciò della buonuscita ricevuta, l’orologio da trentamila dollari che era contenuto nella scatoletta dell’incipit, e suona nuovamente alla porta della suite di Hal.
Quella seconda entrata in scena riprende la precedente e se ne distacca decisamente, capovolgendo e ribaltando le parti senza soluzione di continuità: che cosa vuole adesso Rebecca, una fetta dell’impero o proseguire il gioco ad oltranza, spingendolo verso l’emersione di un’inaccettabile verità e, quindi, di un impensabile amore? È davvero in grado di ricattare Hal con le riprese nascoste delle loro degradanti sedute sessuali? E Hal? Da impacciato e puntiglioso organizzatore di incontri sadomaso diventerà l’ovvia vittima predestinata, oppure si rivelerà lui il grande burattinaio, addirittura un potenziale assassino…? Le parti saranno semplicemente reinventate oppure lasceranno il posto all’autenticità? O è proprio quest’ultima, ad avere sempre bisogno di una maschera che la veli e, al contempo, ne riveli l’essenza…? Domande probabilmente fini a se stesse: la scommessa – irraggiungibile? – sono le esistenze dei due protagonisti, una vita nuova e piena per entrambi. Una posta del genere sfrutta e supera ogni regola e classificazione.

“Sanctuary”: verrebbe da aggiungere non tanto “Lui fa il gioco, lei fa le regole”, come pure efficacemente recita il lancio italiano, ma “prendere o lasciare”. In altri termini, o accettiamo di entrare nel gioco ordito dai protagonisti e, a monte, dai tre autori “under 40” del film, lo sceneggiatore Micah Bloomberg, il regista Wigon e la direttrice della fotografia, la pesarese trasferita negli USA Ludovica Isidori, un gioco fatto di mille matrioske e scambi di ruolo in cui il “doppio” si fa “multiplo” e il “sopra” dialoga con il “sotto” in un’inesausta spirale semantico-visiva, oppure ci fermiamo – letteralmente – al titolo-“safeword”, parola concordata che chiude una pratica sadomaso perché non più sopportabile da uno dei partner. Così, esattamente come accadrebbe allo scettico estraneo che spiasse una di quelle sedute, il riso e l’incredulità prenderebbero il sopravvento. Se, invece, l’iniziale riluttanza esce sconfitta, il gioco ci conquista. Certo, anche noi “partecipanti” dobbiamo superare – al di là del calo di ritmo con cui inizia l’ultimo terzo di film – le inevitabili forzature connaturate in un “gioco”, qui molte impercettibili e dunque intriganti, altre troppo scoperte e pertanto difficili da accettare (l’immediata mega-transazione online, la conferma sul “paradiso fiscale”… soprattutto, la repentina e taumaturgica “trasformazione finale” di lei). Superati questi lampi di “incredulità nonostante l’impianto ludico” (che sbilanciano la narrazione spostandone il baricentro dalla “verosimiglianza” – che mantiene il gioco sulla soglia della realtà – al “gioco tout court”, in cui si accetta disincantati tutto ciò che ad esso fa capo), “Sanctuary” riversa in noi una cascata di sensualità – anch’essa mascherata, “fuori campo”, e proprio per questo ancora più pervasiva – e di interrogativi. Non solo sull’identità dei due protagonisti, solitari abitanti di un “film-suite” (oltre a quell’appartamento, il corridoio e l’ascensore dell’hotel; oltre a loro due, una coppia matura vista fuori di sfuggita); non solo sulle reali intenzioni di entrambi, su dove finisca la recita e inizi la vita… Ma sulla necessità che quella vita, per manifestarsi, abbia bisogno di “incarnarsi nel verbo”, nella parola, in un copione, dietro una maschera che – giustificazione e stimolo insieme – distingua gli interpreti abbattendo al contempo le differenze di status. Un “trucco”, un “make-up” che, forse, dopo una catena di colpi di scena orchestrati abilmente – innanzitutto perché, lo ripeto, costantemente dentro quattro mura –, viene tolto via nel finale. Una conclusione fulminante e perfetta, un “crescendo in discesa” che emoziona e soddisfa, senza tuttavia chiudere le porte agli interrogativi. I quali, anzi, si amplificano ulteriormente sui titoli di coda: e se si fosse trattato dell’ennesimo copione… scritto da chi?
Questi alcuni dei meriti di un piccolo e denso film come “Sanctuary”. Lasciamo scovare ai cinefili i “debiti” degli autori, alcuni confessati apertamente, altri individuati – più o meno forzatamente – dal critico. Hitchkock, in primis, con lei che si chiama “Rebecca” e prima appare bionda e poi mora (allora anche Lynch…) e con gli intermezzi di colori vivaci e fluttuanti che scandiscono i capitoli della narrazione. E che dire del Polanski di questo genere di ambientazioni claustrofobiche, da “L’inquilino del terzo piano” a “Carnage” e “Venere in pelliccia”? E quel nome, “Hal”, richiama forse il computer di “2001: Odissea nello spazio”, occhio rosso come le pareti della suite, “cinepresa della mente” che tutto sente e governa, di cui questo film ribalterebbe il destino, dall’“off” all’“on”, facendo in tal modo coincidere il protagonista con il regista stesso?

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.