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“Youth” di Paolo Sorrentino. Dalla maturità una nuova giovinezza. Recensione

locandina La Giovinezza
La Giovinezza
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 “Youth” di Paolo Sorrentino. Dalla maturità una nuova giovinezza. Alcune considerazioni dopo l’anteprima stampa del 20 maggio al Multisala Adriano di Roma

di Massimo Nardin

Quella tra Fred e Mick è la storia di un’indissolubile amicizia. La quale – forse come ogni, grande rapporto – riceve la propria consacrazione nel momento dell’addio. Due anziani che, eccezion fatta per anagrafe e acciacchi, sembrano trovarsi agli antipodi: Fred è uno stimato musicista in fuga dal proprio passato e da qualsiasi progetto per il futuro, è in pensione e veste di scuro; Mick, invece, è ancora in attività: regista cinematografico, indossa camicie sgargianti ed è assistito da un gruppo di volenterosi e giovani sceneggiatori, con i quali cerca di terminare il proprio ultimo film (manca, soltanto, il finale). I destini dei due amici si intersecano, a partire dall’hotel in cui si trovano a soggiornare, per continuare nelle vicissitudini familiari – il figlio di Mick lascia Lena, la figlia di Fred – e per finire in quel radicale passaggio di consegne che rivelerà come Mick, dal passato – da Brenda Morel, la star che lui lanciò mezzo secolo prima –, non si sia mai riuscito a staccare e come sia invece l’«apatico» Fred – complice il verdetto del medico sornione – quello dei due a cui, di nuovo o per la prima volta, il futuro spalanca le porte.
In mezzo, la presa di consapevolezza di Lena (sull’amore, tanto inaspettato quanto profondo, di Fred nei confronti della moglie) e dei compagni di viaggio dei due protagonisti, discreti testimoni di quelle odissee interiori: Jimmy Tree, un celebre attore alla ricerca di se stesso, e i collaboratori di Mick. Attorno, infine, l’ambiente immobile e sospeso (tra natura e architettura postmoderna) e l’umanità deforme ed iperrealista con cui seguita a deliziarci Sorrentino: la bella massaggiatrice con apparecchio dentale, orecchie a sventola e terapeutica sensibilità; il Maradona sfiancato dall’obesità eppure ancora capace di mirabolanti palleggi lontano da occhi indiscreti; la coppia che non si scambia parole ma ceffoni e amplessi selvaggi nella selva; l’alpinista che s’innamora di Lena; la Miss Universo procace ma tutt’altro che sciocca; la pop star eccessiva (Paloma Faith); la prostituta silenziosa; l’emissario della Regina teso e tenace.
La scrittura di Sorrentino, sin qui sacrificata sovente sull’altare dell’immaginifico, con “Youth” si affina e si irrobustisce. E lo sguardo registico – uno dei pochi sguardi d’autore del nostro cinema – ne beneficia. Sguardo inconfondibile, d’altronde, con simmetrie, decontestualizzazioni e movimenti che rendono ogni suo film, prima che narrazione letteraria, modulazione musicale. Non a caso musicista – compositore e direttore d’orchestra – è il protagonista di “Youth”. Parola quest’ultima, che, altrettanto non a caso, significa “gioventù” e dà il titolo a un autentico meta-film, film sulla (settima) arte e “film-al di là”, nel suo problematizzare, insieme, il cinema e l’autore, nel suo raccogliere le eredità dei precedenti lavori ponendosi, al contempo, come nuovo cominciamento. Sorrentino in “Youth” sublima il proprio recente passato, dà (ultra)corpo al Maradona della celebre dichiarazione alla consegna dell’Oscar 2014 e, spingendosi oltre, cita la conclusione di quella pronunciata da Fellini in occasione dell’Oscar alla carriera 1993. Fred, al termine dell’incontro con l’emissario della Regina nella propria stanza d’albergo, si rivolge infatti alla figlia, alle sue spalle, con parole sostanzialmente identiche a quelle dedicate dal maestro riminese alla sua Giulietta in platea, anch’ella fuori dalla visuale del parlante e anch’ella in lacrime (e, come la moglie di Fred, unico vero amore sopra tutte le altre donne e musa ispiratrice direttamente coinvolta; Fellini: «And please, stop crying!»). La scena del dialogo con l’emissario alla presenza di Lena è forse una delle più potenti mai viste al cinema negli ultimi anni. Lo scandito, struggente eppur composto, «The problem is» con cui Fred, dopo tanta attesa (attesa nostra, e attesa di una vita, per la muta testimone del dialogo), spiega il suo rifiuto a dirigere in pubblico le “Simple Songs” è una stilettata al cuore (ho intravisto più di uno spettatore asciugarsi gli occhi). E di assoluta intensità è il precedente sfogo dei Lena durante il trattamento col fango assieme al padre.
Mentre piuttosto deboli e artificiose riescono a Sorrentino, stavolta, le invenzioni oniriche: il ponte stretto nella Venezia notturna e allagata, felliniano ma poco incisivo; il concerto bucolico con le vacche e l’incubo di Lena con popstar ed ex, trovate suggestive e curiose ma dal portato circoscritto; la levitazione del monaco, effetto (tra l’ottico – discesa della cinepresa – e lo speciale) prevedibile ma incongruo; l’apparizione, al Mick rimasto solo, delle passate attrici nel prato assolato: una scena, questa, doppiamente infruttuosa, sul piano della resa in sé e su quello della collocazione, che spezza il ritmo e causa una poco premiante deviazione prima del finale. Il quale, del resto, risulta insistito e didascalico: le visioni effettive della moglie malata e del tanto sospirato concerto al cospetto della Regina; il ripescare, per l’ennesima volta, la massaggiatrice dell’hotel (ciò che ne fa un angelo custode che guarda a “La dolce vita”); il sancire il legame tra Lena e l’alpinista, sospesi amorevolmente nel vuoto; l’inserire tra gli spettatori del concerto il ritrovato e riconoscente Jimmy Tree; gli accostamenti, infine, delle due bocche (Sumi Jo e moglie di Fred) e dei due primi piani (Fred e Mick), passaggio, quest’ultimo, che chiude il film.
Ho l’impressione che, per Sorrentino, da ora in avanti la linea della (nuova ed eterna) giovinezza stia nel mezzo: tra gli eccessi delle sue invenzioni e la necessità di offrire una spiegazione in più, la schiettezza di uno sguardo che sappia catturare – come nessun altro – la verità delle emozioni, ovvero, come ci ricorda Mick, ciò che dà senso e sapore alla vita di ognuno di noi.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.