A Venezia 81 la Kidman in concorso con l’erotico “Babygirl”: è vera trasgressione?
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“Babygirl” comincia con una scena di sesso. Anzi, con lo schermo nero (su cui ancora scorrono i loghi di distributori e produttori) e l’inconfondibile ansimare di una coppia che fa sesso. Attraverso una riuscita scelta registica – la prima e forse l’unica, che salva quel che è opportuno non vedere – dal buio emergono, in una ripresa a piombo, la nuca e la schiena di lei, sopra il proprio uomo, che compare come effetto del di lei movimento. Prima dei volti, i corpi, non più adolescenziali, che sudano, scivolano e pulsano. L’ansimare cresce ma l’orgasmo, almeno quello di lei, evidentemente non arriva, se la donna è poi costretta dal raptus erotico ad abbandonare il compagno, fuggire nell’attigua stanza, aprire un video porno e masturbarsi selvaggiamente prona sino, appunto, a raggiungere l’agognato godimento.
Lei è Romy, una coraggiosa Nicole Kidman, lui è Jacob, un imbolsito e umbratile Antonio Banderas. Sono una coppia di successo, lui uno stimato regista teatrale, lei una super manager che ha scalato tutti i gradini del potere divenendo l’amministratrice delegata di un’azienda di robotica all’avanguardia. Le due giovani e gioviali figlie – una felicemente e libertinamente omosessuale – sembrano il coronamento di una famiglia perfetta, benedetta dalle rituali colazioni mattutine tutti insieme attorno al tavolo di cucina.
Ma c’è un problema, radicale e sempre taciuto: Romy, con Jacob, non ha mai raggiunto l’orgasmo. Ci penserà il misterioso, aitante e un po’ infantile stagista Samuel (Harris Dickinson, protagonista di “Triangle of Sadness”): dopo aver ammansito un cane impazzito nelle strade newyorkesi davanti ad un’attonita e già attivata Romy, ci penserà a fare altrettanto proprio con lei, capovolgendo nei modi più animaleschi il rapporto capo-subalterno…
Coraggiosa la Kidman, sì. Ma non tanto per le – sempre scientificamente controllate – scene di nudo o per le situazioni grottesche di “riduzione a cane (o gatto)” cui dove e vuole sottostare nel rapporto col giovane nuovo partner. Coraggiosa – non so quanto assennatamente, al di là del compenso e dell’hype – soprattutto ad interpretare un film del genere. Scritto e diretto da una donna, certo, la talentuosa olandese non ancora cinquantenne Halina Reijn, ma vittima – questa è la sensazione imperante – del più trito “luogocomunismo” maschile. Scenette di trasgressione buone per una miniserie tv ed eredi di una moltitudine di precursori di ben altro livello, della letteratura (erotica) innanzitutto e di una catena di film che da “La cagna” di Ferreri arriva sino alle “Cinquanta sfumature” e (a ruoli invertiti) a “Sanctuary” di Zachary Wigon. Certe soluzioni sembrano proprio mutuate da quest’ultimo film, a cominciare dalla parola d’ordine da pronunciare quando il gioco si spinge oltre i limiti accettabili da uno dei partner.
“Sanctuary” là, “Jacob” qui, con relativa risatina del pubblico riunito nella Sala Grande della Palazzo del Cinema di Venezia all’anteprima stampa di ieri mattina. Sì, perché c’è senza dubbio la sana vena di (auto)ironia di una donna che scrive delle perversioni di un’altra donna, dell’inevitabile ridicolo che sbuca in ogni angolo delle stanze di quegli amplessi clandestini e mette a repentaglio una pluridecennale stabilità matrimoniale. Ma c’è – ed è quello che dispiace maggiormente – il sistematico ricalcare gli stilemi più desueti di una tematica che avrebbe meritato ben altro sviluppo.
E, così, la trasgressione è pre-adolescenziale e misera, innocua e – pertanto – semplicemente imbarazzante. E il portato in favore di una più profonda consapevolezza delle reali e (quasi sempre) indicibili esigenze sessuali femminili inesistente. Di più: controproducente. Tanto da far sorgere la domanda finale, a dire il vero sovvenuta sin dalla prima scena: perché?
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