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Londra premia l’Alto Adige: intervista esclusiva al “Photographer of the Year” Albert Ceolan

Albert Ceolan (in copertina una sua photogallery), originario di Salorno, il paese altoatesino sulle rive dell’Adige al confine con il Trentino, è uno dei fotografi paesaggistici più apprezzati a livello internazionale.
Da anni pubblica regolarmente i propri reportage su numerose riviste tra cui le prestigiose “Bell’Italia”, “Bell’Europa” e “In viaggio” (Cairo editore), le cui copertine sono sovente costituite da una sua fotografia. Ha pubblicato diversi libri, gli ultimi dei quali sono volumi monografici dedicati alle stagioni (“Racconto di Primavera” “Racconto d’Estate”, “Racconto d’Autunno” e “Racconto d’Inverno”, Edizioni Ceolan).
È vincitore di diversi premi internazionali, tra cui il Premio speciale della Giuria al concorso internazionale “Leggimontagna” per il libro “Terra in montanis” (2014) e il “Banff Mountain Image Award” (Alberta, Canada, novembre 2017), premio editoriale ottenuto per la sua monografia sull’inverno. Ha vinto per due volte il londinese “International Garden Photographer of the Year”: nel 2015, trionfando nella sezione “The Bountiful Earth”; quest’anno poi, partecipando alla nuova sezione “Plants & Planet” sui cambiamenti climatici, ha vinto il Primo Premio assoluto, fregiandosi così del titolo di “IGPotY – International Garden Photographer of the Year”.
Varie le mostre personali, tra cui quelle presso il Castello del Buonconsiglio di Trento e quella al Museo Tirol Panorama di Innsbruck, Austria.
Nel 2008 è stato il fotografo personale di Papa Benedetto XVI durante le sue vacanze altoatesine.
È titolare di un allestimento personale permanente dedicato alle tradizioni nelle Alpi presso il Museo delle Alpi nel Forte di Bard. Dal 2018 collabora con l’agenzia statunitense Getty Images, leader mondiale nella fornitura di immagini.

Mi ricordo di te, giovane e brillante commesso nel supermercato del paese. Io ero ancora un bambino, ma capivo bene che quella dimensione ti stava stretta: guardavi oltre, avevi in mente ben altro per la tua vita… Raccontami come hai cominciato a dedicarti alla fotografia.
Appena sposato, nel lontano 1984, ho cominciato con mia moglie Cinzia ad appassionarmi al mondo della fotografia, dedicando i miei primi scatti ai masi di montagna in particolare della Val Sarentino.
Con quattro di queste immagini in bianconero, nel 1988, ho vinto il “Ranuncolo d’Oro”, primo premio al prestigioso Film Festival Montagna ed Esplorazione, sezione “Foto bianconero”.

Poi hai deciso di aprire uno studio tutto tuo. Com’è nata l’idea? Che difficoltà hai dovuto affrontare?
Sempre nel 1988 inviai alcuni lavori ad una delle mie riviste preferite, “Bell’Italia”. La quale, in poco tempo, finì con il pubblicare ben quattro miei servizi. Decisi allora di dedicarmi alla fotografia a tempo pieno e di aprire assieme a Cinzia uno studio/negozio di fotografia a Salorno.
Difficoltà ce ne sono state parecchie. Essendo autodidatta, ho dovuto imparare molte cose specialmente nell’ambito della fotografia di cerimonie o dei ritratti in studio. Ma, si sa, con la passione e la tenacia si può superare tutto.

E i tuoi compaesani? Hai notato cambiamenti, nel loro atteggiamento verso di te nel corso degli anni?
Con la gente di Salorno ho sempre avuto un ottimo rapporto; ho lavorato per quindici anni nel supermercato del paese, sono stato per più di dieci anni volontario nei Vigili del Fuoco ed ho fatto più di duecento partite di calcio nel campionato di Eccellenza. Poi, da più di trent’anni, ho lo studio/negozio in paese. Il mio è quindi un rapporto ben radicato nel tempo. Ovviamente, come in tutti i piccoli paesi, ci sono persone che gioiscono dei successi degli altri e te lo dimostrano, altre che invece, per invidia o ignoranza, evitano l’argomento.

Ti ricordi qual è stata la tua primissima pubblicazione su una rivista? Come l’hai ottenuta? E che sensazioni hai provato?
La prima pubblicazione “seria” risale al 1988. Facevo ancora il commesso, a quel tempo, e “Bell’Italia” mi pubblicò un servizio sul Lago di Braies in Val Pusteria. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito.

Un servizio che portò bene a te e anche al lago, se è vero che quest’ultimo, anni dopo, sarebbe diventato la location principale della fortunata serie “Un passo dal cielo”… E la tua prima mostra personale? Dov’è stata organizzata?
Dopo quelle organizzate a Salorno, la prima mostra fuori paese fu a Merano, su invito del fotoclub “L’immagine”. Ancora oggi sono grato all’allora presidente Claudio Fabiano.

Com’è nata l’idea di pubblicare il primo libro, e di dedicare intere monografie alle stagioni? Dove hai scattato le immagini, come le hai inserite in un “racconto”?
Il primo libro che ho pubblicato in qualità sia di autore che di editore nacque da un’idea dell’architetto salornese Bruno Pedri, che mi chiese di documentare fotograficamente una parte del tragitto che Albrecht Dürer aveva coperto nel suo viaggio verso Venezia.
Poi ho pubblicato un libro in bianconero sulla vita dei monasteri dell’Alto Adige, anche quelli di clausura. Qui determinante è stato l’aiuto dell’allora priore del Santuario di Pietralba, Lino Pacchin, ora al Santuario di Monte Berico
Dopo alcuni libri commissionati da altri editori ed enti, è stata la volta di “Terra in Montanis”. Il corposo volume di ben 650 pagine, dedicato alle stagioni nell’Euregio (la nuova euro-regione che comprende il Tirolo storico: Tirolo, Trentino e Alto Adige) racconta un po’ tutti gli aspetti di questa magnifica terra. Con questo libro abbiamo vinto il Premio Speciale della Giuria al “Leggimontagna”, prestigioso concorso librario internazionale che si tiene in Friuli Venezia Giulia. La grafica, molto importante, è stata curata da Renato Ceolan, mio fratello, titolare di Area Grafica di Cavalese.
La quadrilogia sulle stagioni nelle Alpi è un progetto che abbiamo appena concluso. Abbiamo toccato vari aspetti della vita nelle Alpi prediligendo la natura e le tradizioni. Con “Racconto d’Inverno” in particolare abbiamo avuto l’enorme soddisfazione di vincere il primo premio nella sezione libri fotografici in uno dei più importanti concorsi al mondo, il “Banff Mountain Image Award” ad Alberta, in Canada. Anche in questo caso, importante si è rivelata la grafica curata da mio fratello Renato.

Ricordo la tua fedeltà alla Fujifilm “Velvia 50”, quando passavo a trovarti nel tuo studio notavo la tua attenzione alle minime sfumature delle diapositive e delle stampe… Poi, l’inevitabile passaggio al digitale: come lo hai vissuto? Che eredità porti con te, dalla lezione della pellicola?
Dopo il mitico Kodachrome che ho usato sin dagli inizi, la pellicola Velvia 50 era ottima per il paesaggio naturale. Dopo molti anni, quando finalmente la qualità è diventata buona, sono passato anch’io al digitale. All’inizio ho fatto fatica perché conoscevo poco l’uso del computer e non amo nemmeno ora dover stare molto tempo davanti ad uno schermo. In ogni caso, in questa tecnologia ho trovato solo vantaggi. Per chi come me veniva dalla diapositiva, dove il margine d’errore era praticamente pari a zero, è diventato tutto molto più facile. Rimango comunque ancora un po’ “imbranato” nell’uso del computer e sfrutto solo in minima parte le sue potenzialità. Penso comunque che sia meglio dedicarsi alle luci, ai tagli e alla fotografia, anziché passare ore al computer!

Quali ritieni siano i tuoi punti di forza, le caratteristiche che ti distinguono dagli altri fotografi professionisti? Penso soltanto ad una foto, quella di un Castel Haderburg da te ripreso dall’alto e “alle spalle” sotto una leggera nevicata… Uno dei tuoi tanti meriti credo che stia nel viaggiare senza sosta, nello sfruttare la giornata dall’alba al tramonto, curioso di ogni aspetto che incontri sul tuo cammino, su sentieri sempre originali, mai quelli ufficiali e tanto meno turistici… Raccontaci di più.
Ci sono tantissimi bravi fotografi. Ognuno cerca di dare il meglio di sé. Io sono del segno del Capricorno e sono molto determinato in quello che faccio; non mi spaventano fatiche e alzatacce. Poi bisogna essere curiosi e dedicare tutto il tempo possibile a questo lavoro. Tempo che è sempre stato molto limitato; avendo lo studio/negozio, alla fotografia tout court ho dedicato sempre solo il fine settimana e qualche settimana di ferie. Solo in caso di nevicate chiudo tutto e parto, perché la neve è una cosa particolare e bisogna essere sul posto mentre nevica o appena prima che venga il sole. Se si aspetta un giorno, o anche solo poche ore, la magia scompare. Questo comporta dei rischi, perché quando nevica le strade sono insidiose e si fa molta fatica per camminare nella neve fresca, a volte molto alta.
Preferisco sicuramente luoghi meno conosciuti e solitari, ma per lavoro e i reportage vado spesso anche in luoghi turistici e molto frequentati.
In ogni caso, sono fortunato a vivere a Salorno perché per il mio lavoro è un luogo strategico. A trenta chilometri da Bolzano e da Trento, ad un’ora d’auto dal lago di Garda, dal lago di Carezza, dalle Dolomiti, a mezz’ora da Merano, dalle Valli di Non e di Fiemme, a due passi dalla Strada del vino e dal Lago di Caldaro….

Che sensazioni hai vissuto, salendo sui palcoscenici stranieri per ritirare i premi internazionali?
Venir premiati per il proprio lavoro è una delle gratificazioni più belle che ci possano essere. E ogni volta è uno stimolo per migliorarsi. Non partecipo a molti concorsi. L’anno scorso ho partecipato solo all’IGPotY di Londra, e vincere il primo premio assoluto in un concorso internazionale così importante, con fotografi da cinquantasei paesi del mondo, ci ha riempito di orgoglio e di gioia.

Ed essere il fotografo personale di un papa? Raccontaci com’è nata e come si è sviluppata questa esperienza.
Avevamo appena terminato il libro in bianconero sui monasteri dell’Alto Adige, che ci aveva portato a conoscere l’allora Vescovo Egger, un grande vescovo e una bella persona. Apprezzando la mia discrezione nel realizzare le foto per il libro, mi propose di scattare le foto durante le vacanze di Papa Benedetto XVI a Bressanone. La diocesi voleva realizzarne anche un libro. Pur non essendo proprio il mio genere di fotografia, ho accettato questo onore e, per due settimane, ho viaggiato con la scorta del pontefice ed ho vissuto a stretto contatto con lui. Per fortuna il fotografo personale del papa, Francesco Sforza, è divenuto un amico e mi ha supportato con i suoi consigli. È stato un po’ come vivere in un film: guardie del corpo, elicotteri, centinaia di persone, di fedeli, di curiosi… Molto entusiasmante ma anche molto stressante. Non puoi sbagliare nulla anche perché le tue foto fanno il giro del mondo, e sei sempre sotto pressione e all’erta.

Parlaci della tua ultima foto premiata, quella sulla tempesta Vaia del 2018, il bosco distrutto eppur tenace e le Dolomiti all’orizzonte. Un capolavoro. Com’è nata? Che cosa ti ha portato a selezionarla quale immagine che ti rappresentasse in uno dei più prestigiosi premi mondiali?
Avevo già fatto un paio di uscite per vedere i danni della tempesta Vaia in Trentino Alto Adige. Ma non ero soddisfatto delle immagini che avevo realizzato. Poi un giorno stavo facendo con Cinzia delle foto sul Renon, sopra a Bolzano, per un reportage per “Bell’Italia”, ma la fitta nebbia presente non si diradava impedendoci di scattare immagini interessanti. Su suggerimento di Cinzia, scendemmo dal Renon e salimmo fino a Carezza. Là trovammo delle condizioni ottime: una spruzzata di neve e le nebbie che andavano e venivano. Le ultime luci del giorno diedero il tocco finale. Avevo visto da subito che era una serie di belle foto e quindi ho deciso di proporle al concorso internazionale IGPotY, che aveva appena inserito una nuova categoria dedicata alle problematiche climatiche del pianeta. Sarebbe stata una cosa grandiosa vincere quella sezione ma non mi illudevo, considerando le decine e decine di migliaia di foto partecipanti. Vincere addirittura il primo premio assoluto ed essere l’IGPotY Photographer otf the Year era semplicemente un sogno.

Come stai organizzando il tuo lavoro adesso, con l’attuale lockdown?
Ho lavorato parecchio all’archivio, riordinandolo e selezionando ulteriormente le immagini. Normalmente è quasi impossibile, con il poco tempo a disposizione. Ho fatto qualche piccola uscita nel bosco sopra casa. In quanto fotografo, avrei avuto il premesso di muovermi con una certa libertà, ma non mi sembrava giusto per rispetto di quanti dovevano restare a casa, magari in un condominio senza balcone…

Quali sono i tuoi progetti futuri? Questa emergenza ti ha costretto a metterne qualcuno in standby?
Con Cinzia ho già qualche idea per l’immediato futuro. Intanto continuiamo a produrre nuove immagini e poi tireremo le somme!
Durante questa grave emergenza, mi è un po’ dispiaciuto dover chiudere in anticipo la mostra “Un altro inverno” in corso al centro d’Arte Contemporanea di Cavalese, una mostra visitata ed apprezzata anche dal famoso critico Vittorio Sgarbi.
E abbiamo dovuto posticipare pure la mostra “Racconto d’autunno”, in programma a marzo a Bronzolo, che con il circolo culturale “Vivaldi” chiuderà un progetto lungo quattro anni.

Caro Albert, ti ringrazio della tua disponibilità!
Caro Massimo, per me è un onore essere intervistato da te, docente universitario a Roma, sceneggiatore premiato, regista e anche diplomato in fotografia… Grazie di cuore a te!

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.