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“Sick of myself”, la malattia corrosiva del successo a ogni costo

“Sick of myself”, la malattia corrosiva del successo a ogni costo

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Impattante e corrosivo, “Sick of Myself” è di certo un film, con tratti da commedia “non romantica”, che lascia il segno. Come quelli sulla pelle di Signe, l’anti-eroina di questa pellicola che è un manifesto del narcisismo – esasperato dal web e dai social – che tutto divora. E’ come un gancio che arriva dritto questo film, in uscita per Wanted dal 5 ottobre, del non ancora 40enne norvegese Kristoffer Borgli, qui al lungometraggio d’esordio, espressione di quella “nouvelle vague” nordeuropea che ha già prodotto chicche come “Triangle of Sadness” del danese Ostlund (candidato all’Oscar 2023). “Malata di me stessa” già rende bene il senso di quest’opera che, malgrado le sgradevolezze della storia e i richiami da tutti fatti alla filmografia del regista David Cronenberg, conduce per mano lo spettatore nelle viscere della sempre più avvertita pseudo-esigenza di sentirsi al centro dell’attenzione, parabola e specchio dei nostri difetti nella società contemporanea.
La storia è semplice: Signe (la brava 31enne Kristine Kujath Thorp) e Thomas (Eirik Sather) hanno una relazione, ma più che una coppia sono “due io” in competizione: lei lavora in un bar da insoddisfatta cameriera, convinta che «i narcisisti sono quelli che ce la fanno alla fine»; lui è un aspirante artista, ossessionato dallo “sfondare”, che compone opere con oggetti di mobilio che ruba. Quando la presunta arte di Thomas attira l’attenzione di una rivista che fa un servizio a casa loro, nella compagna scatta una morbosa competizione: vuole essere lei la “protagonista” della coppia. Così, dopo aver tentato di farsi aggredire da un cane provocandolo, in combutta con un giovane isolato, invaghito di lei e che smanetta nel “deep web”, Signe si procura un farmaco russo già noto per gravi effetti collaterali che deturpano la pelle di chi lo assume. I fatti (e le dosi sempre maggiori) le danno ragione: il suo bel volto deformato diventa un caso mediatico ben superiore all’arte di Thomas. I momenti da protagonista – sempre sognati da perfetta sconosciuta – si tramutano in realtà senza alcun merito personale, solo per un motivo d’immagine (deformata), con i suoi pro e contro (memorabile la scena in cui Signe scopre che l’articolo uscito su di lei è subito retrocesso sui siti a causa di un pazzo che ha “scelto” proprio quel giorno per sparare col fucile alla famiglia). Ci si avvia così nei gironi di un percorso grottesco dove tutto diventa possibile, fino a un approdo da modella per un’agenzia che vuole lanciare un progetto di moda “inclusiva”. Tutto è parossistico, a tratti detestabile, ma in fondo nemmeno troppo lontano dalla realtà che viviamo oggi. Ed è questa caratteristica che rende il film avvincente per lo spettatore, pronto a scoprire una pagina sempre più assurda di questo “reality show”. «Volevo realizzare una storia spiacevole nel modo più bello possibile», ha detto il regista Borgli. E ci riesce con questa analisi spietata ed acuta dell’autoesaltazione della propria personalità, fino allo scambio folle del rinunciare alla bellezza del proprio corpo per trovare un’affermazione che giustifichi il proprio stare al mondo. Dove il morbo dell’apparire a ogni costo, superando un’esistenza di frustrazione magari sotterranea, si spinge fino all’estremo di sacrificare e condizionare, anche per sempre, il proprio essere. Il protagonismo senza limiti è il metaverso in cui trasfigurare l’esistenza. Il risultato c’è: il film avvince, merito anche di un sapiente montaggio. Rimane da capire – per restare in tema – se riuscirà ad avere più spettatori o “like” relativi alle discussioni che sicuramente può stimolare per chi lo vedrà. Il materiale non manca.

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