Home Cinema Recensioni Film Il “Pinocchio” di Matteo Garrone: visionarietà raffinata e depotenziata

Il “Pinocchio” di Matteo Garrone: visionarietà raffinata e depotenziata

Il regista Matteo Garrone

Uscirà nelle nostre sale il prossimo 19 dicembre il “Pinocchio” firmato da Matteo Garrone e coprodotto con la Francia (presente nel film con un’algida Marine Vacth).

Nascita, disobbedienza, ravvedimento e trasformazione di Pinocchio. Partendo da Geppetto, falegname senza un soldo; passando da Mangiafuoco, il Gatto e la Volpe, Lucignolo, la Fata Turchina e la sua bizzarra corte di animali; e tornando a Geppetto, ma dentro il ventre di un mostro marino.

Roberto Benigni è Geppetto

C’è quasi tutto il romanzo di Collodi, nel film di Garrone. Che eccelle nel rispetto filologico degli eventi e delle stesse fisionomie dei singoli personaggi, ciascuno modellato sulla base delle descrizioni del racconto e dei coevi disegni supervisionati all’epoca dallo scrittore in persona.
E quindi sono poche le licenze poetiche che Garrone si concede, tra l’altro la maggior parte ispirate da Massimo Ceccherini, arruolato dal regista – come rivelato nella conferenza stampa di stamani, 12 dicembre, a The Space Cinema Moderno di Roma – anche come co-sceneggiatore proprio grazie a tale coraggio di andare “oltre il testo”.

Federico Ielapi è Pinocchio

Se l’inizio del film è sbalorditivo, un quadro breve e intenso, drammaticamente comico, ricco di sfumature che, guardando a Chaplin, tratteggiano il personaggio di Geppetto e il suo rapporto con la micro-comunità in cui vive, la prima delusione si sperimenta immediatamente dopo, con la creazione del burattino. Tanto sfaccettata è stata infatti la precedente introduzione al mondo di Geppetto, quanto drastico e sommario risulta adesso l’altro ingresso nel mondo, quello di Pinocchio. Il quale, in un rapido e lacunoso giro di inquadrature, passa da ceppo animato a burattino in fuga, con buona pace di un padre sin lì ben disegnato.

Massimo Ceccherini è la Volpe

Certo, alcuni dei momenti successivi sono emozionanti, si respira l’atteggiamento di Garrone che più amiamo, uno sguardo registico lucido e contemporaneamente visionario, capace di tratteggiare figure e momenti potenti, dal magnifico Mangiafuoco di Gigi Proietti al giudice scimpanzé (uno straordinario Teco Celio), dall’infortunio del ciuchino osservato dalla Fatina al salvataggio del povero animale (non so se Garrone si sia ispirato a Robert Bresson, ma quello dell’asino è il capitolo più struggente del film).

Rocco Papaleo è il Gatto

Tuttavia il regista, stavolta, sembra non essersi emancipato abbastanza dalle derive di un elemento il cui peso grava su ogni scena: il didascalismo.
Declinato, da un lato, nell’eccessivo ed intimorito rispetto verso i contenuti di un’opera preesistente, amata e rappresentata in tutto il mondo; dall’altro, nell’abuso d’abbellimento di ogni scena e personaggio per il tramite dell’impiego combinato di trucchi e computer grafica. Una sovrabbondanza di dettagli che, paradossalmente, depotenzia e allontana il soggetto. A cominciare dal burattino, la cui maschera digitale gela sul nascere l’empatia che invece trasmetteva la ben più rozza ma sfacciatamente reale sfera lignea del Pinocchio di Luigi Comencini. Un confronto che si estende ad altri personaggi, quali la Lumaca (di cattivo gusto la sua presa in giro da parte di burattino e Fatina “cresciuta”) e il Grillo, esemplificativo anche quest’ultimo del passaggio ai nuovi tempi, insieme, iper-definiti, ravvicinati, dilatati e appannati: da Comencini, che lo restituiva con un’ombra tanto semplice quanto geniale e perturbante, a Garrone, che opta per un personaggio in carne ed ossa pesantemente ritoccato.

Gigi Proietti è Mangiafuoco

Il didascalismo sul versante della narrazione, poi, castra la vena sovversiva che altrove il regista ha saputo far esplodere, e blocca all’origine spinte surreali e di aggancio al contemporaneo che potevano riuscire assai preziose (il tempo che passa per la Fatina ma non per il burattino; il carrozzone del Paese dei balocchi).

Marine Vacth è la Fata Turchina

Il pedissequo rispetto degli eventi del romanzo e la conseguente insufficienza della sovversione ceccheriniana sbilanciano perciò le forze in campo. Cosicché la coppia Gatto e Volpe, oltre a mezza osteria (una scena simpaticamente riuscita), si divora il rapporto tra Geppetto e Pinocchio, laddove la prima dimensione risulta financo ridondante (due interventi, temporalmente distinti, per il medesimo bottino – assassini e poi seminatori – e un Pinocchio che, nonostante il periodo dalla Fatina, rimane lo stesso), mentre la seconda denuncia superficialità e monotonia, tanto che l’emozione (del) finale arriva ben fioca.

Proietti, Ielapi e Garrone

Con “Pinocchio”, insomma, Garrone dimostra di sapere che l’adattamento più fecondo parte da una profonda conoscenza; ma dimostra altresì di aver dimenticato che l’approdo dev’essere uno spietato tradimento.
Il risultato allora è un ibrido sospeso tra autorialità e convenzione, tra sorpresa e prevedibilità. E sospeso anche a livello di target di riferimento (ciò che invece non accadeva con “Il racconto dei racconti”): “Pinocchio” appare troppo poco audace per proporsi quale fiaba nera per adulti; ed è troppo tenebroso per rivolgersi al pubblico dei più piccoli.

Marine Vacth

Comunque, come ha tenuto a sottolineare Garrone in conferenza stampa, il responso definitivo sarà appannaggio degli spettatori.

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.