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A Venezia 80 “Lubo” di Giorgio Diritti, sesto e ultimo film italiano in concorso

Giorgio Diritti alla prima di “Lubo” con il pubblico di Venezia 80 (Foto di Massimo Nardin)

Alla presenza del cast, la Sala Grande ha salutato l’ultimo film italiano del concorso ufficiale, “Lubo” di Giorgio Diritti.
Dal 1939 al 1959, vent’anni della vita di Lubo Moser – uno straniante Franz Rogowski –, giovane e affascinante artista di strada, nomade di etnia Jenisch, padre di tre figli e marito di
una donna fedele che partecipa con lui agli spettacoli, lungo il cadenzato percorso attraverso paesi e città svizzere a bordo di una casa-carro trainata dai cavalli. Le conseguenze dello
scoppio della seconda guerra mondiale incombono sull’armonia di quella famiglia aliena e felice e chiamano Lubo alle armi, a difendere il confine elvetico nell’eventualità di un’invasione tedesca. La dipartita di quel capo famiglia “diverso” determina l’automatica sottrazione dei figli, sradicati dal nucleo familiare e inseriti nel programma di rieducazione nazionale “Kinder der Landstrasse” (Bambini di strada). Rimasta sola, la moglie di Lubo
muore nel disperato tentativo di impedire alle forze dell’ordine di eseguire lo spietato mandato.

 

Giorgio Diritti con il cast di “Lubo” alla conferenza stampa di Venezia 80 (Foto di Massimo Nardin)

 

Informato dell’accaduto, Lubo fugge dal fronte e inizia la ricerca dei tre ragazzini. Il suo cammino è avaro di tracce e indizi, ma prodigo di incontri e accadimenti che trasformeranno –
letteralmente – la vita del protagonista. Da artista di strada, a soldato, a disertore… Lubo diverrà omicida assumendo l’identità dell’usuraio ucciso, e in queste vesti, dalla strada, si introdurrà nei
salotti della Svizzera bene, seducendo donne e imbrogliando acquirenti. Fino a che una cameriera – la solare Valentina Bellè –, madre di un bambino, non conquisterà il suo cuore
aprendo le porte alla possibilità di una nuova vita. Ma la storia e la giustizia faranno il loro corso, riportando Lubo alle sue responsabilità. E alla sua ricerca, in fondo, mai interrotta.

 

Valentina Bellè, Diritti e Franz Rogowski alla conferenza stampa di “Lubo” (Foto di Massimo Nardin)

 

Il quinto lungometraggio di Diritti è un’opera-Cerbero, un film ambizioso che guarda in più direzioni e da nessuna parte conduce. Da una parte, i nobili intenti di denuncia, il coraggio
di portare alla luce un razzismo di regime troppo a lungo taciuto – e uno dei conseguenti finali, con le immagini dei sottratti e dimenticati; dall’altra, il ritratto di un uomo visceralmente solo chiamato a reinventarsi – con la relativa conclusione dedicata; infine, il reportage di un’epoca storica tormentata e della natura maestosa e indifferente che l’avvolgeva – e poteva essere la chiusura del cerchio.

 

Momenti della prima di “Lubo” a Venezia 80 (Foto di Massimo Nardin)

 

Tre teste e tre finali per quasi tre ore di film. Ma, a ben guardare, non è il carattere multiforme, il vero problema di “Lubo”. La fragilità primigenia, come quasi sempre accade in film non riusciti, risiede nella drammaturgia. E, stringendo, nel disegno del protagonista.
Che, semplicemente, non è credibile e non conquista lo spettatore, è tante cose insieme e nessuna nel complesso, e nemmeno questo suo carattere camaleontico (“zelighiano”) riceve
l’adeguato sviluppo narrativo. Un ritratto bucherellato che, d’altronde, non convince nemmeno il suo interprete, qui in una delle prove più sbiadite della sua sfaccettata carriera
(basti riguardare la scena in cui Lubo, ormai approdato agli anni Cinquanta, si alza dalla sedia esterna di un bar ricordando stralunato all’interlocutore – e a se stesso – la ragione
della propria lotta).
Ho visto un Diritti sospeso, in conferenza stampa, meno sicuro del proprio operato e dunque più sorridente e fintamente sereno del solito. In linea con la situazione, la sua risposta a chi gli domandava le ragioni della scelta di Rogowski e Bellè: «Perché sono due fighi pazzeschi». Peccato che la Bellè ricopra nel film una parte monca e molto inferiore rispetto a quella di Rogowski, quasi un castigato specchietto per le allodole.

 

Con Valentina Bellè e Franz Rogowski a Venezia 80 (Foto di Massimo Nardin)

Massimo Nardin è Dottore di ricerca in Scienze della comunicazione e organizzazioni complesse, docente universitario presso l'Università LUMSA di Roma e l'Università degli Studi Roma Tre, diplomato in Fotografia allo IED Istituto Europeo di Design di Roma, giornalista pubblicista, critico cinematografico, sceneggiatore e regista. È redattore capo della sezione Cinema della rivista on-line “Il profumo della dolce vita” e membro del comitato di redazione di “Cabiria. Studi di cinema - Ciemme nuova serie”, quadrimestrale del Cinit Cineforum Italiano edito da Il Geko Edizioni (Avegno, GE). È membro della Giuria di “Sorriso diverso”, premio di critica sociale della Mostra del Cinema di Venezia, e del Festival internazionale del film corto “Tulipani di seta nera”. Oltre a numerosi saggi e articoli sul cinema e le nuove tecnologie, ha pubblicato finora tre libri: “Evocare l'inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Andrej Tarkovskij” (ANCCI, Roma 2002 - Menzione speciale al “Premio Diego Fabbri 2003”), “Il cinema e le Muse. Dalla scrittura al digitale” (Aracne, Roma 2006) e “Il giuda digitale. Il cinema del futuro dalle ceneri del passato” (Carocci, Roma 2008). Ha scritto e diretto diversi cortometraggi ed è autore di due progetti originali per lungometraggio di finzione: “Transilvaniaburg” e “La bambina di Chernobyl”, quest'ultimo scritto assieme a Luca Caprara. “Transilvaniaburg” ha vinto il “Premio internazionale di sceneggiatura Salvatore Quasimodo” (2007) e nel 2010 è stato ammesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali al contributo per lo sviluppo di progetti di lungometraggio tratti da sceneggiature originali; nell'autunno 2020, il MiBACT ha ammesso “La bambina di Chernobyl” al contributo per la scrittura di opere cinematografiche di lungometraggio.