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“La ligne – La linea invisibile”, viaggio all’interno della violenza declinata al femminile

Una linea separa. Ma può anche unire. È attorno a questo doppio registro che si dipana “La ligne – La linea invisibile”, viaggio all’interno della violenza declinata al femminile e, soprattutto, dei rapporti interfamiliari fra tre sorelle, molto diverse fra di loro, e una madre immatura e poco consapevole del suo ruolo. Un cocktail in cui il gusto dei sentimenti, così forte da lasciare anche ferite nel corpo e nell’anima delle protagoniste, è messo volutamente a contrasto con il gelo di montagne innevate che fanno da sfondo complementare alla storia sviluppata in un’anonima periferia svizzera, come le tante anonime storie degli universi familiari.

Sono gli ingredienti di questo film coraggioso presentato alla 72esima edizione del Festival di Berlino (e uscito il 19 gennaio per Satine Film) che, forte di una sceneggiatura robusta, esalta la capacità di trattare drammi umani da parte della regista Ursula Meier, talento già emerso nei precedenti “Home” e “Sister”. Oggetto del racconto è l’ambivalenza delle famiglie, da sempre luogo di amore e anche di conflitti, un doppio mondo tagliato appunto da una linea sottile: è quella, a 100 metri dalla casa, disposta dal giudice per vietare – per 90 giorni – di riavvicinarsi al proprio nucleo alla 35enne Margaret, donna irosa ma fragile che combatte fisicamente con una violenza che lascia tracce anche sul suo corpo (come <un animale ferito>, annota la Meier), dopo che al culmine di una banale lite ha spinto la madre Christina facendole sbattere la testa sul pianoforte e causandole una parziale perdita dell’udito, come si mostra nella sequenza iniziale montata al rallentatore. Una linea invisibile ma che, a ribaltare il sottotitolo, a un certo punto è tracciata realmente per terra, di colore blu, dalla sorella minore Marion, anche per tutelare dal potenziale arresto Margaret che non intende accettare la separazione e che ogni giorno torna lì, richiamata da quella soglia, nel desiderio di non staccarsi dalla sfera familiare. Sono pochi quei cento metri, ma diventano un simbolo forte delle vicinanze/distanze presenti in tutte le famiglie del mondo, come ciascuno di noi sa. E delle potenzialità dell’amore da incanalare nella giusta direzione, come succede alle tre figlie alle prese con una madre anch’essa vulnerabile e un po’ svampita, ruolo assegnato a una Valeria Bruni Tedeschi che ormai per questi ruoli è un’habitué, nella parte di un’ex brillante musicista che ha dovuto accantonare i sogni artistici essendo diventata molto giovane madre di Margaret (e che ancora insegue amori vacui e giovanilistici). E la musica è l’altro grande protagonista del film, come elemento capace di valicare l’incomunicabilità che sembra regnare in questa famiglia tutta al femminile dove, come annota la cineasta, ogni sorella risponde in modo diverso all’umoralità genitoriale: Margaret con la violenza, Marion rifugiandosi nella religione che diventa parte importante della sua vita e la terza sorella, Louise, cercando di avere un’esistenza normale mentre è incinta di due gemelle (altre due femmine). Proprio le lezioni di canto continuano a legare in particolar modo Marion a Margaret, che torna quotidianamente sulla linea per impartirle, all’aperto, alla sorella minore. Una presenza, quella musicale, legata anche a Stéphanie Blanchoud, attrice ma anche cantante e drammaturga, che interpreta Margaret e che nella vita reale pratica proprio la boxe, sport di combattimento. Un insieme di elementi ben studiato e miscelato per questo film, a tratti con accenti bergmaniani, anche nei risvolti non raccontati e che culmina nella scena in cui madre e figlia, l’una di fronte all’altra in attesa dell’udienza decisiva, hanno difficoltà a parlarsi. Tornate vicine, ma separate ancora come da un’altra linea, di nuovo invisibile. Perché in fondo, come diceva Tolstoj, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.