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Nelle nostre sale “Master Gardener”, l’ultimo film di Paul Schrader

Nelle nostre sale “Master Gardener”, l’ultimo film di Paul Schrader

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Presentato fuori concorso, più di un anno fa, alla 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, esce oggi nelle nostre sale “Master Gardener”, ventiduesimo film del regista e sceneggiatore Paul Schrader.

Joel Edgerton in una scena del film ©MoviesInspired



Narvel Roth (un monolitico e intenso Joel Edgerton) è il quasi cinquantenne capo giardiniere di Gracewood, la storica tenuta sudista di proprietà della ricca vedova Norma Haverhill (una crepuscolare e sanguigna Sigourney Weaver).

Sigourney Weaver e Joel Edgerton in una scena del film ©MoviesInspired


Se l’aspetto della tenuta è stato nei decenni efficacemente ripulito dalle dolorose contraddizioni razziali di un passato non troppo lontano, ed ora appare come un piccolo Eden tappezzato delle più sfavillanti varietà di fiori, il corpo di Narvel porta impressi, indelebili, i tatuaggi del suo recente – e indicibile – passato neonazista. Un passato di violenze, soprusi e uccisioni che rima con quello della terra in cui vive (la Louisiana) e dal quale egli ha voluto prendere le distanze, denunciando gli ex compagni estremisti bianchi e reinventandosi un’identità e una professione all’interno di un programma di protezione testimoni coordinato dall’agente Oscar Neruda (il torbido Esai Morales dell’ultimo “Mission: Impossible”). Una professione non solo di facciata: Narvel, ora scrittore non più del corpo ma di un diario notturno intriso di natura e filosofia, appare tutt’uno con il proprio ruolo, uno scrupoloso, taciturno e dotto orticoltore, attento alle minime sfumature di colori e profumi, e alle loro influenze sulla vita dell’uomo. Dalla sua condotta attuale, più vicina a quella di un asceta che a quella di un violento redento, l’oscuro non è tuttavia sparito del tutto: Narvel, oltre a concedersi una singola sigaretta al giorno, si prende cura non soltanto della tenuta, ma anche dei bisogni sessuali della sua proprietaria, l’unica conoscerlo a fondo, a cominciare dai tatuaggi, di fronte ai quali ella, “padrona bianca”, nessun disagio dimostra.

Joel Edgerton e Sigourney Weaver in una scena del film ©MoviesInspired


Quel nucleo oscuro è destinato però ad allargarsi e a coinvolgere entrambi. Norma, infatti, in una sorta di pena del contrappasso, ha “il nero” in famiglia: la pronipote Maya (una pungente e profonda Quintessa Swindell) è un’avvenente venticinquenne orfana di madre che, “il nero”, lo ha ereditato dal padre e interiorizzato nel vizio della droga e delle cattive compagnie. Gracewood può essere anche per lei terra di redenzione e Norma la mette al servizio di Narvel. La cui granitica corazza ben presto mostrerà crepe che faranno trasparire (toglieranno il velo…), anche agli occhi della ragazza (“Maya”…), tatuaggi e trascorsi. Quelle due esistenze alla deriva sovrapporranno pertanto i loro percorsi e dovranno affrontare e gestire il ritorno delle reciproche zone d’ombra…

Joel Edgerton e Quintessa Swindell in una scena del film ©MoviesInspired



Sin dai titoli di testa, in quello sbocciare decontestualizzato e iperrealistico di meravigliosi fiori, si respira aria di testamento spirituale. Forse perché “Master Gardener” chiude la sua ideale “trilogia della redenzione” (cominciata con “First Reformed” e proseguita con “The Card Counter”), forse perché la sua salute cagionevole rischiava di compromettere le riprese, sta di fatto che Schrader con questo film ci regala una rarefatta summa della propria filmografia. Formata, a ben guardare, da ventidue lungometraggi sfaccettati, diversi l’uno dall’altro, a volte compressi in un’essenzialità di stampo bergmaniano-bressoniano, altre volte aperti all’ampliamento dello sguardo, della seduzione e dello spettacolo (“Hardcore”, “American Gigolo”, “Cat People”, “The Comfort of Strangers”, “Affliction”, “Adam Resurrected”, “The Canyons”, “Dog Eat Dog”…). Ma tutti debitori di un ganglio tragico coincidente con i primi anni di vita dell’autore stesso (famiglia rigidamente calvinista che gli proibì persino di vedere film fino ai diciott’anni…). Un magma che s’è riversato in tutta la sua irruenza nel primo capolavoro di Schrader, la sceneggiatura di “Taxi Driver”, diretto da Martin Scorsese, regista di altri suoi poderosi copioni (“Ranging Bull”, “The Last Temptation of Christ” e “Bringing Out the Dead”). Ecco, sembra che l’ombra di Travis Bickle, il suo primo assoluto protagonista, si prolunghi sugli altri, successivi antieroi, tutti figli reietti di un primordiale – e forse mai concretizzatosi – Eden, peccatori consapevoli e, insieme, prodotto della malvagità di un’umanità e una storia che li trascendono e condizionano, tenacemente orientati ad un impossibile ristabilimento dell’ordine perduto e inconsciamente soccorsi da una provvidenza che indica loro una strada inattesa. Le imprese degli antieroi di Schrader, infatti, non possono realizzarsi mai nella loro pienezza, ma si ridimensionano e si snaturano, nel corso delle narrazioni, secondo deviazioni che conducono a risultati minimi, talvolta miserrimi, sempre contraddittori e aperti (pensiamo al cambio di rotta di Travis, o del reverendo di “First Reformed”…). E, sempre, illuminati dalla flebile luce della grazia, nelle fattezze di angeli custodi femminili eredi, anche questi, di un prototipo, la Betsy di “Taxi Driver” (sviluppatasi in altri archetipi, la coeva Sandra di “Obsession”, diretto da Brian De Palma, e la Michelle Stratton di “American Gigolo”), uno sguardo che, finalmente – e magari tardivamente –, restituisce allo stremato pellegrino quella piena “potenza d’azione” sin lì perseguita e soltanto sfiorata se non tradita.

Quintessa Swindell e Joel Edgerton in una scena del film ©MoviesInspired


In “Master Gadener” lo svolgimento classico e puro della tragedia schraderiana assurge a una chiarezza ai limiti del letterale, di cui è emblema la scena onirica che celebra lo “sbocciare dell’amore” esattamente con lo sbocciare fantastico di un prato notturno, salutato dall’urlo gioioso della coppia lanciata in una corsa in auto. Semplicità ed evidenze incontrovertibili che s’incarnano nel protagonista, uomo perfettamente – diabolicamente e simbolicamente – bifronte, un Dottor Jekyll sulla cui epidermide sono tatuate le stimmate blasfeme del Mister Hyde che in lui da sempre convive, probabilmente l’antieroe più estremo ideato da Schrader. L’integerrimo, introverso e sensibile custode di un fragile quanto meraviglioso Eden floreale: quale opposto più radicale potrebbe esserci, dello spietato assassino membro di un gruppo neonazista? L’Eden stesso, poi, materializzato in Gracewood (“Grace”…): le prime parole del film sono la riflessione del protagonista sui tre tipi di giardino, ma questo, che sia il più razionale e impositivo o quello che più asseconda i capricci della natura, prevede sempre l’intervento dell’uomo; il quale, per il semplice fatto di esistere, “piega” il Creato alle proprie esigenze, “(ri)formandolo” e soggiogandolo più o meno pesantemente alla propria ristretta e mortificante prospettiva. La quale però, di rimando e in riferimento all’intera comunità umana, può di quello stesso Creato mettere in luce (rendere leggibili) gli aspetti più nascosti e sorprendenti, esattamente come fa Narvel con il proprio lavoro fisico e intellettuale. Un’opera del genere non è forse quella di ogni artista, di più, di ogni atto di scrittura, di “testualizzazione” del Mondo? Con “Master Gardener”, Schrader torna all’origine di tutto e la erge ad “alfa” della propria intera cinematografia e della creazione artistica nel suo complesso.

Quintessa Swindell e Joel Edgerton in una scena del film ©MoviesInspired


Era forse inevitabile, dunque, che una tale urgenza cristallina, onestamente programmatica e fecondamente didascalica, portasse Schrader a relegare in secondo piano la trama, le modulazioni dell’amore, della vendetta, dell’espiazione, insomma le consuete strategie drammaturgiche che esigono sorprese continue ed un ben orchestrato crescendo emozionale. In “Master Gardener” tutto risulta elementare, desaturato al pari della fotografia del film, accennato se non scontato, ma dentro una costruzione sentita e luminosa, illuminante proprio in forza della sua trasparenza, coerenza e partecipazione.
E così l’accenno di un ballo delicato, fino a quel momento impensabile, ripreso nella discrezione di un campo lungo che immerge l’umano in una natura dominante, diventa la conclusione migliore per il film e per un’intera filmografia.

 

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